Nell’attesa di un nuovo Dpcm portatore di lockdown e dei risultati delle presidenziali americane, nelle ultime ore ho dovuto formalizzare la rinuncia a un viaggio in camper ottimisticamente pianificato alla fine dell’estate. E chissene, direte, e con ragione. Io lo so che non significa nulla, di fronte allo sfacelo che ci circonda. Lo so bene. Ma oggi lo stesso brucia un po’. Brucia perché è il cappello di una inquietudine più profonda che ha che fare con questa nuova indefinita palude temporale durante la quale il mondo sarà lontano, altro da me, irraggiungibile. Tutto quel mondo con tutte quelle strade voci case incontri luci. E saranno lontane moltissime delle persone che amo. Sarà impensabile, a un certo punto del mattino, dire Ma guarda che bel sole, e uscire per un giornale e un caffè e due parole con qualcuno incontrato per caso. Non ci si può far nulla, solo trovare altri modi per mettere a frutto quello che c’è. Un modo per starci, in questo pantano, e attraversarlo. Con prudenza, con amore. Non cedendo ai richiami dei professionisti del terrore né a quelli dei ciarlatani spacciatori di paccottiglia. Cercando di non farci annientare dall’ansia. Continuando a nutrire come possiamo la parte di noi che si alimenta di progetti e di sogni – una guida per un nuovo viaggio, un biglietto del treno che porta al mare, una notte in rifugio ad ascoltare le chiacchiere dei ghiacciai. Il nostro camper che cammina sulla strada grigia, mentre una musica bella viene dalla radio e i bambini di continuo ci chiedono: Quando siamo arrivati? Quando siamo arrivati? (Quando siamo arrivati?)
È in arrivo la notte dei fantasmi ma non è da stasera che li frequento. Mi fanno compagnia quando cammino, me li porto in giro – o forse è il contrario, forse sono loro farmi strada. Parliamo, io racconto, gli faccio vedere: qui vedi, qui c’è dove ci siamo seduti insieme tante volte, là dove ci siamo fermati sotto la pioggia. Ricordi? Là abbiamo ascoltato l’acqua, sorpreso il capriolo. Loro sanno, certo, sanno tutto. Ma mi lasciano dire. Perché mio è il bisogno di tenere insieme, di non lasciar andare. Loro che forse proprio quello vorrebbero insegnarmi, nel nostro andar vicini: Lascia andare, che non vuol dire perderci. Mi sembra di capire che è questo che mi dicono: Continueremo, sempre, a camminare insieme.
Il momento della giornata che preferisco è il mattino.L’alba addirittura, per quanto mi costi regolare la sveglia sul canto del gallo. Mi piace perché è proprio quel momento, quello sul nascere del giorno, che mi dà la sensazione che tutto sia possibile.
Oggi quel sentore è amplificato: esce in libreria “Quando la montagna era nostra”.
E’ un’avventura che comincia, un sentiero -visto che di montagna si tratta- che mi piacerà percorrere insieme a chi avrà voglia di tenermi compagnia. Porto da bere, una bussola e tutte le cose che ho visto, toccato, sentito, mentre questa storia arrivava fino a me. La prima? Le impronte dell’orso nel fitto del bosco. Chissà se le vedrete anche voi…
Così ecco, comincia un viaggio, in un mattino di autunno: tutto è possibile.
Mentre sali la cresta di una montagna guarda a valle il sentiero percorso. Per quanto sia lunga ancorala salita, non potrai che ringraziare le gambe il fiato il tuo cuore per averti avvicinatoalle nuvole.
Per averti mostrato che qui -fuori dal vociare confuso del mondo- puoi essere lontana da tutto e parte di tutto.
19 agosto Ti svelo un segreto, ho detto questa mattina a Eliandro. Abbiamo fatto una salita lunga e ripida, siamo arrivati a un bivacco che è una piccola casupola seminascosta nel bosco. Il proprietario la lascia lì aperta a tutti e attrezzata di tutto. Chi entra, lascia qualcosa: una firma sul quaderno, biscotti, una birra.Sulla porta c’è un cartello: speriamo nel meglio ma prepariamoci al peggio. Mi è sembrata una cosa utile a questi tempi fumosi, dove non vedi molto in là, neanche a forzare la vista.Dentro il baito c’è un fornelletto a gas e ci siamo fatti un caffè, dopo tutta la fatica. Non so quanti caffè ho bevuto così buoni.Allora, questo segreto, mamma? Quando la salita è ripida, gli ho detto, non cercare di vedere in cima. È fatica e basta. Guardati i piedi, il prossimo passo da fare. Stavamo già scendendo a quel punto. Ma mi è sembrata anche quella, a pensarci bene, una cosa adatta ai tempi e non solo alla salita in montagna.Guardiamoci i piedi, lo sforzo sembra più piccolo. Poi, magari, a un certo punto della salita, qualcuno ci ha preparato una moka e una piccola panca di legno all’ombra di un pino.
28 agosto Da queste parti la salita alla Cima Posta è molto più di una gita in montagna. È una specie di rito iniziatico, connettivo, una tradizione, un modo per mettersi alla prova ogni anno, per dirsi Eccomi anche questa volta. Sono qui.Questa estate è stata la prima volta di Lemuele ed Eliandro. Sono arrivati al rifugio felici di avercela fatta e di aver trascorso qualche ora cercando di avvistare camosci, corvi, marmotte, un’aquila dalle ali enormi – oltre che sudando come fontane. Soprattutto felici di aver diviso l’esperienza con il loro amico del cuore. Perché insieme la fatica è metà e la gioia per la riuscita dell’impresa è moltiplicata: uno dei mille insegnamenti della montagna
30 agosto Mi fa un po’ effetto essere qui, tra queste montagne, e pensare che tra meno di un mese uscirà “Quando la montagna era nostra”, che vive proprio su questi sentieri, tra la piccola chiesa e il vecchio bar, sotto questi alberi ancora verdi e frondosi.Così mi accade una cosa strana: che ai tantissimi ricordi che ritrovo qui, ora si aggiungano anche scene vissute solo nella mia immaginazione e riportate sulle pagine, in questa eterna e strabiliante commistione tra ciò che realmente accade e ciò che ne facciamo, tra la vita e il modo in cui la raccontiamo.Perché cosa si scrive e si legge a fare se non per percorrere strade che non sono la nostra, ma che un po’ ci somigliano?Se posso esprimere un desiderio, finché sono qui, sotto l’occhio vigile e benevolo dei miei monti: spero vi piacerà.Spero sarà un andare per boschi insieme – un perdersi e, forse, ritrovarsi, ma soprattutto un modo per fermarsi di tanto in tanto, in qualche radura, guardarsi intorno e dire Però, che bello, da qui, il panorama.
1 settembre Il sole è ancora caldo, quando esce, ma la sera in cucina si comincia ad accendere la stufa.Il mattino esco presto per camminare e il sottobosco ha un odore nuovo e più intenso di terriccio umido, felci, funghi – pare farsi introverso e misterioso mentre le prime foglie, qua e là, arrossiscono. I bambini trovano mazzatamburo e qualche porcino e ridono del mio sguardo disattento, sempre altrove.Ho finito Kent Haruf e mi tiene compagnia Jesmyn Ward con La linea del sangue – vado avanti la sera fino a tardi, alla luce della lampada. Leggo poesie e gli intrichi del muschio sulle cortecce e l’acqua del torrente che si gonfia e schiamazza più forte dopo le piogge dei giorni scorsi. Oggi è il primo settembre, una data per me simbolica. Ci aspettano giorni di incognite, panorami solo indovinati tra rami frondosi e scenari ancora da attrezzare. Del resto così è vivere, sempre, ma chi ci pensa per la maggior parte del tempo…Ripenserò questi giorni, questa bolla di luce tremula che di continuo muta e ridefinisce i contorni. Questo senso di sicurezza e sospensione. So che mi farà bene.A tutti, un settembre lieve, e promettente, e persino felice.
Cosa succede quando si mette in fondo a un libro la parola FINE? Dopo mesi o anni di scrittura, intendo.
Ancora non l’ho capita bene, questa sensazione. So che mi sento un pozzo prosciugato, un buco asciutto e terra rossa intorno e crepata dall’arsura. Ma allo stesso tempo: levità. Come dopo un esame, una maratona, una cosa che ci hai provato e in tanti momenti ti sei detto Non ce la faccio mica, e invece.
E sento un desiderio di muovere il corpo, di andare fisicamente verso qualcosa. Dopo sere e sere e sabati e domeniche e notti e mattine davanti a uno schermo, sento il corpo semiatrofizzato che reclama il suo diritto a muoversi, camminare, ballare, salire una montagna. Faticare.
Per questo -anche per questo- mi sono messa a dare il bianco. Adesso ho vernice persino sulle mutande, casa mia sembra lasciata indietro da uno tsunami e per passare dal bagno alla cucina devo fare lo slalom tra scale, secchi di giallo, pennelli, rulli e secchi di blu, senza scivolare sui nylon stesi qua e là. E no, non sarà una cosa tanto veloce.
Ma la vernice fa un odore buono e da qualche parte si sta stampando una storia che mi è costata mesi -e persino anni- di impegno. Mica male, mi dico, grattando via macchie dai pavimenti, dalle braccia e dalle ginocchia. Mica male.
Una notte a più di 3000 metri dopo 1300 di salita. Lui che salendo, dopo molta fatica e qualche piccolo scoramento e con la meta già in vista mi dice “Mi sento il re del mondo”.Una notte in mezzo a marmotte e camosci, nel rumore di tuono che fanno le frane dai ghiacciai che ci sovrastano. Cercare la neve, camminarci scalzi. Al crepuscolo, leggere “La gabbianella e il gatto” sdraiati tra le rocce. Lasciarsi sorprendere da uno stambecco a pochi passi da noi, seguirlo su sentieri di pietra mentre la notte scende lentissima. Una partita a briscola dopo cena, ascoltare le avventure di alpinisti che sarebbero partiti nel cuore della notte per scalare Castore e Polluce. Immaginare come sarebbe, la faccia dei ghiacciai vista alla luce di una torcia, la paura che fa. Addormentarsi sotto coperte pesanti, abbracciati. Lemuele e io, la nostra prima vera avventura da soli. Immaginare le prossime, insieme, bellissime. Per sentirlo dire ancora “Mamma, mi sento il re del mondo”
Siamo creature dei boschi prestate alla civiltà.
Abbiamo linfa nelle vene e occhi color corteccia o foglia.
Di ramo in ramo saliamo sfidando la forza di gravità
e scendiamo fino al suolo sempre controvoglia.
Abbiamo il cuore tremante di certi cerbiatti,
la vista al buio della civetta,
ci dicono che siamo distratti
o facili prede di abbagli: ci incantiamo sui dettagli
che sfuggono a quelli che vanno di fretta.
Non ci manca la curiosità scanzonata del gatto,
il coraggio silenzioso del lupo,
non ci manca l’intuito e la prontezza allo scatto,
né l’audacia del balzo che sfida il dirupo.
Siamo creature rupestri ma di tipo socievole, ogni tanto ci pigliano per extraterrestri per la nostra allergia alle regole.
Seduti a un banco, dentro a un ufficio o in un supermercato sembriamo forse un po’ strani: ma non puoi certo giudicare un pesce dal modo in cui si muove tra i rami.
Sospetto che lei conservi questo sapere – la memoria di quel giorno e di quella notte – specialmente ora che ne è la sola custode, così strenuamente, e con tanto scrupolo, come si conserverebbe in mano una piccola gemma: non una gemma donata da una persona amata o da un caro amico, ma una ancora più preziosa, una gemma trovata durante il cammino – forse per caso, o forse per qualche imprescindibile moto del destino – e quindi dotata di una grande magia, di una grande forza. (Rick Bass, Cane da petrolio)
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