Non c’è distanza
che nel silenzio
non si ricucia.
Facciamo gli alberi,
che le parole non servono,
che le radici
nel buio del mondo
si toccano.
Facciamo gli alberi
che sopravvivono alla fine
del proprio ramo
– diventando bosco.
Non c’è distanza
che nel silenzio
non si ricucia.
Facciamo gli alberi,
che le parole non servono,
che le radici
nel buio del mondo
si toccano.
Facciamo gli alberi
che sopravvivono alla fine
del proprio ramo
– diventando bosco.
Sii la polpa di melone
sulla tovaglia
bianca.
Sii la zona d’ombra
quando il sole
è ardente,
il soffio caldo
della stufa
in una notte
di dicembre.
Sii la metafora
venuta bene,
la storia raccontata
da chi non conosce
le parole.
Sii le macchie di luce
nel folto di un faggeto.
Sii l’amico
a cui ognuno dice:
No,
che non avevo impegni,
benvenuto, e cambia
i programmi
per rimanerti
accanto.
Fa’ che il tuo spirito
non abbia confini
ma che sia capace
di raccogliersi
tutto
dentro una mano.
Mentre sali la cresta di una montagna
guarda a valle il sentiero percorso.
Per quanto sia lunga
ancorala salita, non potrai che ringraziare
le gambe
il fiato
il tuo cuore
per averti avvicinatoalle nuvole.
Per averti mostrato che qui
-fuori dal vociare
confuso del mondo-
puoi essere lontana da tutto
e parte
di tutto.
E brillare di smisurata
e accogliente
solitudine.
Siamo creature dei boschi prestate alla civiltà.
Abbiamo linfa nelle vene e occhi color corteccia o foglia.
Di ramo in ramo saliamo sfidando la forza di gravità
e scendiamo fino al suolo sempre controvoglia.
Abbiamo il cuore tremante di certi cerbiatti,
la vista al buio della civetta,
ci dicono che siamo distratti
o facili prede di abbagli: ci incantiamo sui dettagli
che sfuggono a quelli che vanno di fretta.
Non ci manca la curiosità scanzonata del gatto,
il coraggio silenzioso del lupo,
non ci manca l’intuito e la prontezza allo scatto,
né l’audacia del balzo che sfida il dirupo.
Siamo creature rupestri
ma di tipo socievole,
ogni tanto ci pigliano per extraterrestri
per la nostra allergia alle regole.
Seduti a un banco, dentro a un ufficio o in un supermercato
sembriamo forse un po’ strani:
ma non puoi certo giudicare un pesce
dal modo in cui si muove tra i rami.
In un principio d’estate
raccogliamo gelsi
nel viale di casa
dove abbaiano i cani.
Mentre nascosti tra i rami
ridiamo
-le bocche i denti macchiati
di viola-
sentiamo come sarà dura
domani
essere ancora e in una volta sola
così sporchi,
e contenti
Qualcuno sa nuotare ma non è un pesce
qualcuno vorrebbe volare
ma gli mancano le ali
e non ci riesce.
Qualcuno ha preghiere senza parole
qualcuno ha speranze che crescon da sole;
non serve annaffiarle né potarle in aprile,
basta sognare un mondo
gentile.
Qualcuno aspetta e non sa che cosa
qualcun altro pretende sempre qualcosa,
qualcuno tace
e chi tace acconsente
-lo afferma chi urla
e gli altri non sente.
Qualcuno ha due gambe due braccia
un cuore tenace
dita capelli sudore e lacrime fatte col sale
ma non è uomo
se non è capace
di riconoscerne uno
diverso da sé
-eppure uguale.
A casa mia le cose erano diverse.
Là ci stavano sentieri fatti con i sassi e sabbia e bordati d’erba verde
e il confine tra il cortile mio e quello del vicino
era fatto da una riga disegnata in terra,
disegnata per essere saltata.
Poi è venuta gran confusione
e la famiglia che ci abitava accanto è andata via per prima.
Andata dove, chiedevamo noi bambini,
Andata dove.
È rimasta una linea disegnata in terra
e nessuno -e niente- dall’altra parte.
La gran confusione deve aver mischiato tutto,
perché dopo sono venuti sentieri fatti d’acqua
-sentieri d’acqua, ci crederesti?,
una scia mobile attraverso il mare.
Non c’erano più i miei passi sulla sabbia ma lo stare in equilibrio
su una barca
e non c’era più la traccia, solo blu davanti gli occhi.
E dietro e tutto intorno. Un blu che qualche volta diventava nero.
Ora vivo in un Paese dove i limiti sono tracce in fil di ferro:
non per essere saltati
ma per dire la differenza tra chi sta qui
e chi sta dall’altra parte.
Non cuce, il confine, ma strappa
come la forbice col filo
come la distanza col passato,
e quel che vedo è un muro alto
e reti
e non so cosa c’è dall’altra parte.
Non so più
se c’è, un’altra parte.
Ogni giorno vieni qui,
apparecchiamo la tavola insieme.
Il piatto e il bicchiere vicino,
a sinistra la forchetta, il coltello a destra,
un sorso di vino
e luce alla finestra.
Alla preghiera di chi ama
servono poche parole
vale più il silenzio
vale il gesto che protegge dal sole
dalla trascuratezza
e dal ripensamento.
Che sia pulita la tovaglia
che sia pieno il bicchiere
che ti resti la voglia
di versarmi da bere.
In fondo ci vuol poco
perché sia sostanzioso il pasto,
smuovere la brace, alimentare il fuoco,
cincischiare un po’ per gioco,
e il tuo cuore
quando è vasto.
E se un giorno -per sfortuna o cedimento-
il pane sarà bruciato
e si sarà fatto aspro il vino
non sarà un giorno sprecato
non sarà mancato il nutrimento
se mi sarai rimasto seduto
vicino.
Farei una collana delle tue prime volte.
La prima volta che sei nato (potrebbero essercene tante)
la prima volta che hai volato
tra le mie braccia con le braccia larghe pensandoti un aliante.
Quando hai detto la prima volta piumone
lì per lì non sembrava importante
è successo lo stesso con frutta pompelmo e stagione
pareva poco, ma adesso
vorrei risentirle tutte quante.
C’è stato il primo giorno a scuola
ti ho lasciato in classe con la schiena dritta e occhi larghi
come un prato
avrei avuto voglia di tornare indietro e stringerti
e non farti uscire dal mio abbraccio per un tempo smisurato.
C’è stata la prima volta
che hai viaggiato, guardando la notte al finestrino:
ombre si muovevano lontano,
io forse ti tenevo la mano
forse guardavo avanti, sentendoti vicino.
La prima volta che sei salito a cavallo
pure piccolo e maldestro sopra quella schiena enorme
sembravi così fiero;
ho capito dal modo in cui tuo padre ti guardava
che quella è stata la prima volta
che si è sentito intero.
Farei una collana delle tue prime volte
la terrei sempre al collo per non perderne nessuna
so che sarebbe il solo gioiello
capace davvero di portarmi fortuna.
Tra le tue prime volte una è speciale
– il giorno che hai visto il cielo.
C’era inverno e pioggia
fuori dall’ospedale,
e un freddo severo:
quella è stata la prima volta
che dentro i tuoi occhi
il cielo l’ho visto
anche io per davvero.
Ho capito che il più delle volte
è il moto della gamba a governare il cuore.
Andiamo dove la terra tiene,
dove la pietra non frana,
dove a piedi scalzi possiamo incontrare nell’acqua di torrente
una limpida trafittura di vita.
Ho capito che
è l’adesso che non va tradito
e adesso è il modo che abbiamo
di saltar le buche
travalicare fossi
camminare cauti lungo rive sassose
costeggiare spaventi o avventarci sopra
come il gheppio sull’arvicola
come il falco sulla lucertola.
Ho imparato che sulla vetta
delle montagne
la notte arriva tardi
e al crepuscolo è come stare
dentro una pentola
sotto un vasto coperchio di luce.
Soprattutto ho imparato che se dopo aver sbagliato
strada
e speso a vuoto fatica sudore fiato
non tenti nuovamente la cima,
avrai sbagliato invano.
(Foto in alto di Elio Orcelletto)