Giochiamoci il Jolly: Blog di Fioly Bocca

  • Lettera ai miei figli sulla paura (Istanti rubati #marzo2020)

    On: 29 Aprile 2020
    In: istanti rubati, lettera
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    Vorrei per voi giorni senza ombre, strade senza crepe pronte ad accogliere i passi. Vorrei cibo genuino, aria pulita, ambienti incontaminati e la promessa di nessun male. Vorrei tenervi al riparo da tutto, ma non posso. Quello che posso fare, è provare a insegnarvi che la paura è paura in ogni parte del mondo, che ogni madre vorrebbe per i propri figli quello che io desidero per voi. Che è parte di ciò che ci rende uguali. E umani. E vulnerabili.

    Posso spiegarvi che il nemico non sono i cinesi untori o gli africani sui barconi. Che non è dall’altro che bisogna proteggersi, ma dal suo spavento, e dal nostro, quando prende il sopravvento. Non sono i muri e le barriere a salvarci, ma il rispetto. È la cura per il più debole, per il più esposto. Proteggendo gli altri, statene certi, ci prendiamo cura di noi stessi. E viceversa.

    Credete alla paura ma non cadete nella rete di chi la strumentalizza per manipolarvi. Ogni paura ha uguale dignità, ogni persona in pericolo ha diritto di essere soccorsa e accolta.
    È umano l’istinto alla sopravvivenza, senza quello ci saremmo estinti. Riconosciamone uno uguale in chi scappa dalle guerre, dalle bombe, dagli agguati, dalla fame, dalla solitudine. Prendiamoci la responsabilità delle nostre scelte e, vi prego, restiamo fuori dalla logica della caccia all’untore, di chi con ferocia punta il dito, dalla ricerca perpetua del capo espiatorio.

    Se ha un significato la paura, come il dolore, è insegnare riconoscimento e rispetto per la paura e il dolore degli altri. Altrimenti, ogni cosa è vana.Una società è un organismo che va protetto intero. Parte da un corpo, si allarga a famiglia, a comunità, a paese. Vi auguro di vedere lontano e sentire che ciò di cui siamo parte è infinitamente più grande di quello che vogliono farci credere.

    Non costruiamo piccoli privilegi sulla pelle di chi non ha diritti.
    Non rubiamo l’acqua che qualcuno beve per annaffiare il nostro giardino recintato di vanagloria.
    Non è garantita la vita, nessuna vita. E queste sono per una madre le parole più difficili da pronunciare. La sola cosa da fare è celebrare la fragilità, senza diventarne schiavi.

    In questi giorni non facili io spero che impareremo tutti qualcosa, per lasciarvi un domani almeno un po’ più solidale, almeno un po’ meno cannibale. Che la minaccia di una epidemia -che non riconosce confini tracciati sulle mappe e non presenta i documenti alle dogane e se la ride dei fili spianti- ci aiuti a tenere a mente l’imprevedibile volubilità delle fortune umane.

    Vi auguro la paura che serve e il coraggio che basta.

    Vi auguro la lucidità per riconoscere il pericolo e le mosse per contrastarlo. Vi auguro di avere sempre abbastanza voglia di vivere da non abituarvi, mai, all’angoscia vostra e a quella altrui.

    E l’equilibrio per restare in piedi, anche quando la terra oscilla, e la forza per allungare una mano a chi l’equilibrio lo ha perso – è il solo modo, credo, per sperare in una mano che prontamente si tenda verso di voi, se capiterà un inciampo.

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  • Caro Natale Babbo

    On: 31 Dicembre 2018
    In: lettera
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    myhome

    Caro Natale Babbo
    ti scrivo anche quest’anno
    a cavallo di un anno che sta per finire,
    ma per una volta non son qui a domandare:
    ci sono cose che vorrei restituire.

    Vorrei che la magia
    che mia madre mi ha insegnato
    la ritrovassero intera i miei figli
    e imparassero a farla durare
    come tempo supplementare.

    Vorrei che la pazienza di mio padre
    potesse diventar bottino
    e io usarla come prezioso seme
    per far fiorire il comune giardino.

    Vorrei dare a qualcuno la dolcezza
    di quell’infermiera
    che in un momento di bufera
    ha saputo fermarmi il pianto
    con una carezza.

    Vorrei che le valanghe di amore ricevuto
    rendessero fertile
    lo spazio e il tempo 
    avuti in sorte,
    come un terreno dopo che ha piovuto.

    Vorrei che la vita 
    mi insegnasse a non temere la morte:
    non so se sarà vita eterna 
    viaggio per Chissà-Dove
    o reincarnazione
    ma vorrei riuscire a vedere
    che non esiste separazione.

    Vorrei che i gesti di gentilezza 
    praticati a casaccio
    diventassero la regola
    in tutto ciò che faccio.

    Vorrei mettere a frutto il tempo
    perché è il dono più grande che ho avuto
    insieme a questo mondo ancora sconosciuto
    insieme a questo cuore,
    fragile insolente sprovveduto,
    – sempre in cerca di nuovo splendore.

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  • Amore di padre

    On: 19 Marzo 2018
    In: lettera
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    mare

    L’amore di padre è un abbraccio travestito da solletico.

    È una bicicletta smontata nel bagagliaio della macchina, per portarla in ferie.
    Amore di padre è un viaggio di chilometri nel caldo d’agosto, con l’auto stracarica. E poi tornare solo, poche ore dopo – l’auto vuota, la musica alta e il finestrino giù.
    Amore di padre sono le macchinine fatte correre, le pile per far funzionare i giochi, i palloni gonfiati a fiato, i cerotti sulle sbucciature, i graffi da disinfettare. Tutti i giocattoli da aggiustare, le sorpresine kinder da montare, castelli di sabbia da costruire, le partite a dama, l’altalena da spingere, la bicicletta senza rotelle. Le gite della domenica con la radiolina per ascoltare le partite.
    Amore di padre è chiamare i bambini quando sono al mare e rimproverarli per la tristezza della sera -non fare così che ci vediamo presto. Poi chiudere la telefonata con il cuore un po’ più stretto.

    Amore di padre sono le occhiate che non hanno bisogno di parole, i dispetti fatti per tenersi i figli addosso.
    Una madre stringe, un padre stropiccia. E in quello stropicciare ci sono le carezze e le parole che si sanno senza dirle.

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  • Grazie maestra Lina

    On: 15 Gennaio 2018
    In: la mia vita e io, lettera
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    cefalù

    Il primo giorno di scuola abbiamo disegnato noi stessi e, per chi sapeva già farlo, scritto il nostro nome lì sopra, sulla prima pagina del quaderno. La mano tremava un po’.
    In terza elementare la maestra ha detto a mia mamma È brava Fioly nei temi, usa già gli incisi.
    In quarta elementare mi ha detto che le divisioni non erano proprio il mio forte. Era vero. Ricordo una classe vuota e io ancora inchiodata al banco, e la prova del nove che non tornava mai – la prova del nove è una croce, e non solo graficamente parlando.
    Aveva ragione, non erano proprio il mio forte le divisioni. Mi ha anche detto però che potevo imparare, solo stare tranquilla, solo non perdere speranza e pazienza quando la classe si svuota e io ancora al banco. Se vuoi ci riesci, stai sicura, mi ha detto.
    Un giorno di terza elementare mi ha chiamata alla cattedra, mi ha fatta sedere un momento vicino a lei, davanti alla finestra. C’era una luce forte, ricordo. La mamma le aveva appena detto che aspettava un bambino. Non so più cosa mi abbia spiegato esattamente quel giorno, sul fatto di avere un fratellino o una sorellina, sulla ricchezza che questo avrebbe regalato alla mia vita. Ma so che me ne sono tornata al posto confortata -era una notizia bella, certo, ma un po’ metteva i brividi, vista da lì- confortata e persino orgogliosa perché stavo per diventare Sorella Maggiore.
    Una dozzina di anni fa la ho incontrata per strada in paese, la mia maestra delle elementari. Mi ha chiesto di mamma che era in ospedale. Non stava proprio per niente bene, mamma, a quel punto. Mi sono venute in mente, chissà perché, decine di immagini – il primo giorno di scuola, la volta che mia madre mi ha detto brava, sono belli i tuoi temi, lo dice anche la maestra, la volta che è venuta in classe per dire che sarebbe arrivato un fratellino – che poi è stata una sorellina. Ho rivisto tutto e non ho potuto evitare di scoppiare in lacrime.
    La maestra mi ha abbracciata e ha detto Non devi piangere, devi essere forte. Se vuoi ce la fai.
    Era molto più difficile che stare in una classe vuota con la prova del nove che non torna. Infinitamente, più difficile. Ma era l’unica cosa da fare.
    Ho capito che una persona ti ha lasciato molto se ti ha lasciato un insegnamento piccolo che si può replicare in grande.
     
    Ora che se ne è andata anche lei, penso all’unica cosa che si possa fare, in questo riadattamento infinito ai vuoti e ai pieni della nostra esistenza: ripeterci che possiamo farcela.
    Se lo scrivessi sul quaderno adesso, la mano tremerebbe un po’: Ciao maestra Lina, e grazie.
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  • E tutto quell’azzurro

    On: 23 Agosto 2017
    In: lettera
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    montagneNei giorni che ho trascorso in Trentino, nel paese di mia madre, è successa la stessa cosa di ogni anno: almeno una persona ogni sette che incontro mi dice Come somigli alla tua mamma.
    Hanno ragione. Lo vedo nelle foto che mi fanno, in certe espressioni, in un certo modo di corrucciare le sopracciglia, o di guardare altrove. Mi fa un po’ effetto questa cosa, come se il tempo, a ogni suo giro di vite, allo stesso modo ci allontanasse e ci avvicinasse un po’.

    Poi, spesso, ci mettiamo a parlare di lei. Le persone che la conoscevano mi ricordano aneddoti, momenti che hanno fermato nella memoria. La scorsa settimana una sua cugina, Alda, mi ha raccontato dell’ultima volta che si sono viste.
    Era fine estate, hanno fatto una lunga passeggiata, prima nel bosco fitto e poi hanno attraversato i prati e si sono sedute sopra un’altura, un declivio ai piedi delle Piccole Dolomiti che ti stanno in piedi di fronte, così vicine che per vedere la cima devi piegare il collo, e difendere gli occhi dal sole. C’è tutto quel verde, e poi tutto quell’azzurro. Me le vedo, a parlare come due amiche da una vita che si vedono meno di quanto vorrebbero – vivono in città lontane. Vengono fuori quelle chiacchiere che hanno dentro un po’ tutto. I ricordi d’infanzia, la cronaca degli ultimi mesi, i progetti.

    Pensa che bello sarebbe fare qui una beauty farm, ha detto Alda a mia mamma, quell’ultima estate. Sai, uno di quei centri benessere, uno di quei posti dove vai per rimetterti in sesto.
    Non so perché si ricordasse proprio quel momento di tredici anni fa, mese più mese meno. Ma so che mentre me lo raccontava piangeva. Forse per quello che poi non è stato. Non si è fatto nessun centro benessere lì -e questo secondo me è anche un bene- ma anche fosse stato, mamma non lo avrebbe visto. Forse Alda pensava a questo. O forse pensava a come lei ha sorriso, a quell’idea. Perché certamente mia madre deve aver sorriso. Magari ha detto Sarebbe bello. Magari ha cominciato a immaginare come sarebbe stato.

    Così come adesso io penso a come sarebbe stato se ora fosse qui per compiere gli anni. Qui per prenotare un week end in un centro benessere o per starsene seduta su quel prato, la testa piegata di lato e la mano sugli occhi a guardare all’insù. Tutto quell’azzurro.
    Qui per vedere come le somiglio. Quando guardo altrove, pensando a qualche cosa che potrebbe essere.

    Auguri, ma’.

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  • Sei bella e incinta

    On: 22 Marzo 2017
    In: la mia vita e io, lettera
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    portone“Mamma, sei bella e sei anche incinta.”
    “Amore grazie ma no, non sono incinta.”
    “Ah. E cosa vuol dire incinta?”
    “Vuol dire aspettare un bambino.”
    “Allora tu sei, incinta!”
    “…”
    “Perché tu aspetti me. Mi aspetti sempre.”

    Ho sorriso, gli ho dato un buffetto. Ho finito di struccarmi il viso con il latte detergente. Ho pensato che ha molta fantasia ed è generoso – dirmi che son bella mentre mi tolgo il trucco alla fine di un giorno di lavoro.
    Poi ho pensato che ha ragione lui: quello che fa di una donna una madre è l’attesa. Una madre aspetta che la pancia fiorisca, che il frutto si completi e staccandosi dall’albero cada nel mondo. Aspetta il primo strillo, il primo dente, la prima parola.
    Aspetta alzata di notte le luci di un’auto nel viale.

    Adesso l’attesa più bella è la sera, aspettare con loro, nel letto, il sonno che viene. Si legge un libro, prima, ci si mette al sicuro: finché i lupi stanno dentro le storie non vengono qui. Poi ci sono i pensieri sparsi, quelli che di poco precedono i sogni, che vengono a galla un momento mentre ci si inabissa in un mondo che la volontà non governa.

    Oggi a scuola ho imparato a scrivere gli – Domani mi fai vedere – Facciamo che tu sei la mamma orsa e noi gli orsacchiotti e andiamo in letargo – No, io voglio essere una piccola volpe – Sì, adesso chiudiamo gli occhi – Ma domani si va all’asilo? – Sshhhh… dormiamo, adesso. Dormiamo.

    Jonathan Safran Foer scrive che non si è mai abbastanza attenti alle ultime volte dei figli. Si aspetta la prossima cosa che impareranno a fare – il giorno che leggeranno quel libro da soli e si addormenteranno senza il mio corpo vicino, con le gambe non più rannicchiate contro le mie, ma lunghe fino alla fine del materasso.
    Così io aspetto stasera perché so che stasera sarà ancora così: la storia del Riccio che cerca una tana, la luce da spegnere e due corpi piccoli vicini – e mille pupazzi, forse un gatto.
    Ci saranno altre cose da aspettare, domani e nei giorni a venire. Adesso mi sta bene questa, non ho nessuna fretta.

    Avete ragione voi, bambini, io sono qui, incinta perché sempre in attesa. Del rumore che faranno le vostre voci, dei piedi che arriveranno al fondo del letto. Di sapere se il Riccio trova o non trova una tana.
    Ogni madre lo fa, anche se sembra stia facendo tutt’altro: anche quando davanti allo specchio la sera, dopo il lavoro, si leva il trucco dagli occhi.
    Senza fretta.

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  • Una volta non dicevo Ti amo

    On: 2 Maggio 2016
    In: lettera
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    una volta non dicevo Ti amo

    Una volta non dicevo Ti amo.
    Lo tenevo stretto addosso, in una morsa di labbra, un tabù di pudore e ritrosia. Di orgoglio inesatto. Adesso lo regalo a bracciate, lo dico mentre ti allacci le scarpe, mentre guardo fuori dal finestrino di un treno.

    Ti chiamo indietro quando esci di casa, come per ricordarti di comperare il pane,
    te lo mando dietro sulle scale, un cane che segue l’osso, mentre le scendi a precipizio.
    Lo dico mentre dormi e non senti, retaggio del tempo prima, di quando lo pensavo soltanto o lo tenevo tra i denti, un fischio di uccello insabbiato in gola.

    Lo dico con la facilità dei bambini che restituiscono alle parole il peso esatto, senza eccedere e senza lesinare. Loro conoscono i volumi delle emozioni e si destreggiano per il mondo con un vocabolario essenziale.

    Dico ti amo perché mentre lo dico diventa una cosa viva che mi cammina accanto. Perché dirlo mi fa sentire libera.

    Dico ti amo perché delle cose che so è la più somigliante alla verità.
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  • Quello che non t’ho detto

    On: 25 Febbraio 2016
    In: lettera, sproloqui
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    quello che non ti ho dettoQuello che non t’ho detto
    è un silenzio scalzo,
    una frase d’effetto.
    Le tue mani di radice
    hanno dato aria e rincalzo
    al verde della linfa:
    la terra -come l’amore-
    si innaffia
    e non si dice.

    Non t’ho detto ti giuro
    perché saranno i miei passi
    e non le parole
    a farti sicuro.
    Tu albume, io tuorlo
    quello che non t’ho detto
    si traduce dai sogni
    sull’orlo del giorno.

    Non ti ho mai detto
    che hai acceso di mattino
    l’estate
    sbaragliando certezze,
    buttate nel mazzo
    due a due
    e scompagnate.

    Non ti ho detto
    dello stupore azzurro
    per la sete dei pesci
    che trova ristoro
    tra le tue braccia.
    E dei tuoi figli,
    che hanno fatto intero
    quello che prima
    è stato soltanto
    una traccia.

    Non ti ho detto

    quello che sarebbe stata

    -senza te-
    la mia vita:
    un cielo col coperchio,
    un fuori gioco
    a fine partita,
    un punto a capo
    che non chiude il cerchio.
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  • E se non capitasse mai che tu mi chiami amore

    On: 15 Luglio 2015
    In: lettera, sproloqui
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    in spiaggiaE se non capitasse mai che tu mi chiami amore
    mi accontenterò di immaginare la tua bocca che lo fa:
    la a larga della virata di un Airone sul lago,
    la emme morbida di una Maglia di lana
    in inverno,
    della Mano che mi dorme sulla pancia, distratta,
    la o profonda di un’Ora con le tue gambe
    che mi stringono i fianchi
    -che sia fuga o che sia resa-,
    la erre arrotata del Raso di pelle abbronzata
    sotto il tuo sguardo nascosto.

    La e, che sia sempre e solo
    E così sia.

    Ma se sentirò la tua bocca
    dirmi amore
    scorderò vocali e consonanti
    e conserverò
    il bisbiglio tra le dita,
    il soffio sulle ciglia,
    il brivido alla base del collo.

    E la e di E così sia.

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  • Nascita

    On: 27 Dicembre 2014
    In: lettera
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    nascita

     

    Così eccoti. Quando ti ho visto ho sciolto tutti i dubbi, ho rallentato il battito del cuore, ho sparso sospiri come granelli di luce nel buio.
    Così eccoti, finita la battaglia abbiamo spiegato insieme le vele alla vita. Stanchi, malconci, sanguinanti, ma non vinti.

     

    Così eccomi. Sono la voce che senti dall’inizio di tutto, sono stata il ritmo del tuo respiro, il tessuto della tua carne, il calore del tuo sangue. Sono stata il terreno della tua semina, lo spazio del tuo cosmo. Sono stata la tua navicella tra intuizione e vita.
    Ho custodito il segreto del tuo venire.
    Sono sbagliata, sghemba, impreparata. Ma mai arresa. E innamorata, sempre.

     

    Così eccoci. Prima uno, ora due. Lividi e urlanti come due lupi sfuggiti alla gabbia. E sfiniti, contro la luna. Affamati, impaurirti e liberi.
    Così eccoci. Esausti, abbracciati e sospesi. Dentro il mondo, ma lontani da tutto.
    Minuscoli, spaventati. Invincibili.

     

    Il jolly è: auguri Eliandro, amore mio: 3 anni insieme. E molto di più.

     

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