Scendere nell’orto prima di cominciare la giornata, in estate, è un rito che mi va comodo.
Che poi è facile, se ci pensi.
Pensare un nuovo tatuaggio.
19 agosto
19 agosto
Mia madre mi raccontava sempre di una cosa che facevano in
paese quando era bambina.
Una certa sera, alla fine dell’inverno, bambini e ragazzi si armavano di
pentole e mestoli e campanacci e si riversavano per le strade battendo i coperchi
e urlando e cantando e chiamando a gran voce per svegliare la primavera.
Io me li vedevo. Una piccola processione nella notte, tutt’altro che
silenziosa, un gruppo sparuto di bestiole allegre, il buio sopra sotto e
intorno, la terra ancora dura ma già disposta a schiudersi, gli scherzi dei
ragazzi, i brividi di eccitazione e freddo dentro i giacconi e magai la luna,
magari un cielo ingombro di stelle altissime sopra le cime delle montagne e
giusto più in là, acquattata nella penombra, la bella stagione a promettere
giorni luminosi e caldi come melograni sotto il sole.
Non è molto che ho scoperto che questo rito si ripeteva ogni 28 febbraio, ovvero
il giorno che te ne sei andata, mamma, 14 anni fa. Da allora è più facile
immaginarti. Immaginarti partire una notte che ricordo nerissima e fredda sulle
scale bianche dell’ospedale, mentre cadeva una neve leggera e fuori stagione, ma
al mattino, potrei giurarci, al mattino arrivare alle nostre montagne fiorite
di crochi e minuscole foglie nuove.
Buona primavera a te, mamma, e qualche volta, se puoi, batti un colpo di
pentola e scuoti un campanaccio, che io ti senta da qui.
Ho capito che il più delle volte
è il moto della gamba a governare il cuore.
Andiamo dove la terra tiene,
dove la pietra non frana,
dove a piedi scalzi possiamo incontrare nell’acqua di torrente
una limpida trafittura di vita.
Ho capito che
è l’adesso che non va tradito
e adesso è il modo che abbiamo
di saltar le buche
travalicare fossi
camminare cauti lungo rive sassose
costeggiare spaventi o avventarci sopra
come il gheppio sull’arvicola
come il falco sulla lucertola.
Ho imparato che sulla vetta
delle montagne
la notte arriva tardi
e al crepuscolo è come stare
dentro una pentola
sotto un vasto coperchio di luce.
Soprattutto ho imparato che se dopo aver sbagliato
strada
e speso a vuoto fatica sudore fiato
non tenti nuovamente la cima,
avrai sbagliato invano.
(Foto in alto di Elio Orcelletto)
Ci sono cose che si fanno soltanto in montagna ad agosto. Ad esempio, le cene della contrada nel prato davanti a casa, ognuno cucina qualcosa, i bambini giocano con le bici e i palloni e se ne vanno in giro a cercare i ghiri lì intorno, che quest’anno ce n’è un’invasione.
A fine serata tutti –eccetto i bambini- si beve grappa, scegliendola tra una decina di tipi, e si intona (si fa per dire) Quel mazzolin di fiori e Vecchio scarpone.
In montagna ad agosto i tuoi figli scalano alberi e tu pensi che era giusto ‘sta mattina, o ieri al più tardi, che su quei ciliegi ti arrampicavi tu, che allora avevi i codini e le ginocchia sempre spelate. Ora ci sali ancora, dietro tuo figlio, e lo guardi da basso, con le braccia pronte alla presa e il cuore a strappi. (altro…)
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Siamo appena tornati dalla vacanza in montagna: possiamo dire di avercela fatta.
Con i dovuti aiuti, si intende. Ed è stato bello, questo momento per noi tre. Riposante no, quello non me lo sentirete dire. E probabilmente sarà così per le vacanze dei prossimi quindici anni, stando a quello che raccontano genitori più rodati e con più anzianità di servizio (incoraggiamenti mai, eh). (altro…)
Eccomi, qui, per dire: vado avanti.
Con caparbia ostinazione, ecco un estratto dal secondo capitolo. Qui la protagnita, Anita, racconta dell’incontro tra sua madre, ostetrica, e il padre, elettrcista.
Vi va di buttare un occhio?