Con le parole che adesso sono dei tuoi figli, con i loro stessi stupori e l’aggrapparsi alla vita come fosse una cosa facile, liana da un ramo, una cosa che ti trovi impacchettata sotto l’albero a Natale.
Semplice. Come semplice è adesso averne scordato il sapore.
Giovane come l’erba nuova di marzo, con la forza di un tronco appena screziato dalle tempeste irruenti delle estati in piena.
Giovane come me e le mie mani di calendula e neve, i sogni di rivoluzione che intrecciati tra i capelli erano promesse di cambiamento urlate ai venti.
Con scarpe robuste e passi che tentennano poco, solo per l’ombra di un pudore.
Con i dubbi che scavano crepe tra le promesse cieche e le certezze sceme di prima.
Con vita più vissuta che raccontata tra le mani e il cuore: adesso sai che non serve gridare per fare rumore.
C’è stato un momento che mi sono fatta grande perché sei diventato padre.
Padre dei figli generati da un innesto delle nostre carni. Tu giardiniere capace di germinare piante, questa volta hai generato vita.
Tu, con me, abbiamo dato un futuro al mondo: il solo possibile, per noi.
Per il dolore inevitabile del non saper fermare le lancette. Nemmeno per poco, per restare allacciati ancora, come quando ragazzi ci siamo immaginati in una bolla di sapone che non scoppia, che solamente naviga dove vogliono i venti.
Era facile, allora, non credere alla luce occidua della sera.