Giochiamoci il Jolly: Blog di Fioly Bocca

  • Viaggio nella Grecia dei migranti: qualcosa di quello che mi sono portata a casa

    On: 27 Giugno 2016
    In: la mia vita e io
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    viaggio in GreciaIl volo di rientro mette la parola fine al fondo della missione. Ammesso che possa davvero finire un viaggio come questo, così breve ma pieno di cose, così veloce e surreale che alla fine ti domandi se sia accaduto davvero.

    Eravamo in venti a partire da Bologna, su un volo che fino all’ultimo ha rischiato di essere soppresso a causa dello sciopero. Siamo atterrati a Salonicco e con quattro auto ci siamo spostati sul confine tra Grecia e Macedonia, per consegnare quei 1200 chili di aiuti nei campi di rifugiati che si sono costituiti dopo lo sgombero di Idomeni.
    Non farò un’analisi socio-politica, non mi sento in grado; troppo confusa la situazione, troppo pochi i dati di cui ho visibilità, troppo parziale la mia comprensione di questo fenomeno di proporzioni mondiali che avvelena il nostro tempo.
    Proverò a dire quello che ho sentito, unica materia su cui mi sento preparata, almeno un po’. Cominciando dal rientro; perché, come mi avevano saggiamente preannunciato, è la parte più difficile.

    Io sono tornata con la paura che dopo un’esperienza come questa si gratti via un po’ del significato delle cose che vivi; se non sai gestire bene i sentimenti, c’è il rischio di levare lì dove dovresti aggiungere. Rischi di non rientrare con la consapevolezza della fortuna che ti è toccata come diritto di nascita, ma con la sensazione nauseante che se quella fortuna non è nemmeno in parte divisibile, allora non vale. Purtroppo, non vale.

    Ero pronta agli occhi grandi dei bambini, persino alle loro mani tese. Non avevo pensato alla loro pelle, troppo tracciata dai segni, alle movenze troppo simili a quelle dei miei figli. Dopo succede che non puoi scegliere di liberarti da quella sovrapposizione – di quei bambini e quelli tuoi, che t’aspettano a casa- che ti resta addosso e intorno come una mosca sui datteri.
    E non ti basta saperli oltre mare, al sicuro, non ti basta sapere di poterli nutrire, vestire, viziare, se lo stesso non puoi fare con questi. Che hanno le stesse movenze, gli stessi occhi liquidi, lo stesso modo di prenderti per mano e la pelle più segnata da storie che non vorresti sapere.

    Questi bambini, se gli dai un foglio e una penna, disegnano case. Case vere con tetti e finestre e muri. Di campeggio non ne possono più.

    Non ero pronta alla rassegnazione degli uomini, immobili nei rari stracci d’ombra sotto un sole che avvizzisce i pensieri, a volte quasi indifferenti alla nostra presenza, a volte pronti a scattare in piedi e mettersi in fila per la questua. Perché ci sono uomini a cui, in sostentamento alla famiglia, resta come unico gesto concesso di allungare la mano.
    Da una parte noi, t-shirt uguali, scatoloni pieni. Dall’altra loro, stancamente dritti, vestiti come capita, le mani vuote.
    Le donne che ho visto erano quasi tutte gentili, hanno tentato sorrisi, hanno mostrato pudore. Il coraggio e l’impudenza di chiedere gli veniva da un bambino in braccio o tenuto per mano.

    A bilanciare il senso di disturbo delle reti intorno agli accampamenti e delle tende in strada, c’è stato un accampamento di diversa natura: uomini e donne da ogni parte del mondo che intorno a un tavolone in alluminio si alternano ininterrottamente per preparare i pasti da consegnare ai rifugiati. Abbiamo passato lì molte ore, a scaricare casse di pomodori, cartoni di datteri, camion caricati a frutta. Lo abbiamo fatto con una catena di braccia, con la consapevolezza benedetta di essere parte di qualcosa di buono.

    C’era gente con voglia di ridere e di ballare e una confusione di lingue e una bella musica allegra, e litri di acqua da bere per sopportare il cado, e un pomodoro che scappa dalle mani e rotola via, e qualcuno che ti mette un cappello in testa per resistere al sole, e 24 datteri a sacchetto. Per pranzo, gazpacho o couscous per tutti gli aiuti. Al termine di un compito, un applauso di tutti e per tutti.

    Lì stanno giovani e anziani a dormire in una tenda, passando le giornate a confezionare cibo e distribuirlo. Ognuno a suo modo, ognuno per quello che può: tre giorni, due settimane, sei mesi.
    A qualcuno abbiamo chiesto Quanto rimani? Ha detto Non vado più via. Un’altra ha detto Domani parto, ma torno. E lo ha detto voltandosi in fretta, che non si vedesse il pianto.

    E lì ho pensato che il mondo forse non l’ha perso il diritto a salvarsi; c’è molto bene che non fa notizia, non fa il botto, non fa rumore che non sia una canzone di ska cubano o Manu Chao, sotto il ritmo scandito delle cassette svuotate e riempite.

    In pochi giorni questo è stato l’antidoto all’orrore, a un’Europa, e forse a un mondo, senza risposte; è stato il contrappeso che salva dallo schianto della bilancia.

    Ho visto che aiutare alle volte è un dolore grande, un dolore che ha gli occhi di tutte le persone che non puoi salvare. Delle volte invece somiglia in tutto e per tutto a una festa senza pari, per cui l’invito non serve.

    E giorni così, con questi ingredienti mescolati che ti schiantano la testa e lo stomaco di emozioni, diventano una giostra da cui, tenuto conto di tutto, non hai più voglia di scendere.

    (Grazie a Time4Life per avermi permesso di fare questo e grazie soprattutto al gruppo di 20 pazzi partiti con me da Bologna; per pochissimo tempo siamo stati qualcosa che somiglia a una famiglia.
    Grazie a mia sorella che anche questa volta si è fidata ed è ha diviso con me questa avventura. Grazie ai bambini per i fiori, i disegni, i sorrisi).

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