Abbiamo già detto tutto e fatto niente.
Restiamo a vedere immagini di corpi gonfi risputati dal mare o sanguinanti lungo qualche confine domandandoci se sia giusto o no pubblicarle, quelle immagini, facendo analisi di sofismi, ripercorrendo il passato, sbattendoci in faccia l’un l’altro dati, date, eventi, nomi, leggi.
Ci parliamo addosso, disquisiamo, ci rimproveriamo, puntiamo il dito, puntiamo il dito, puntiamo il dito. Bastasse puntarlo un triliardo di volte perché si staccasse, avremmo tutti la mano monca.
Così siamo. Capaci di guardare gente che muore a due centimetri di mare sul mappamondo e parlare. Giudicare. Avranno diritto di scappare? Soffrivano abbastanza? Scappano proprio da una guerra o solo da qualche scaramuccia? Mica hanno fame: c’hanno il telefonino. Macché persecuzione, quello hai visto che faccia tranquilla, ci prende per il culo tutti, in salute com’è. Ci rubano il pane, il salame, le case.
Sindachiamo. Schediamo. Sproloquiamo. Con il culo al caldo e la tv accesa. Come fossimo dei dell’Olimpo a guardare da basso ci arroghiamo il diritto di spiegare quale sofferenza sia più giustificata di un’altra. Quale il dolore sopportabile, quale la morte cercata.
Invece che vedere i nostri figli in quei figli, le nostre madri in quelle donne senza voce. Invece che sentire i colpi dei manganelli sulle nostre teste.
Invece che sforzarci di vedere cosa cosa esattamente stia dietro un padre o una madre che piglia la vita del proprio bambino e la punta su una barchetta che forse toccherà terra, forse no. Ci scommette su, un numero secco al casinò.
Da ragazzina, mi ricordo che alle volte vedevo mia nonna piangere, davanti al telegiornale. Un po’ la consolavo, un po’ la prendevo il giro. Pensavo fosse la vecchiaia. Non si può fare niente, dicevo, cosa piangi a fare. Questo pensiero, ora lo so, ha rovinato il mondo: non si può fare niente. Ci si abitua così in fretta, al dolore degli altri.
Adesso piango io. Non solo perché vedo bambini occhi sgranati sopra una spiaggia, troppo somiglianti ai miei, che stanno all’asilo. Stesse mani piccine, stesse gambette magre, stessi capelli arruffati. Non solo perché vedo padri che stringono figli e non sanno quante volte ancora. Non solo perché vedo uomini che alzano armi contro altri che non hanno più forze per alzarle in preghiera. E pure loro si somigliano, solo sa una parte le divise, dall’altra gli stracci.
Non piango per questo, mentre ripenso mia nonna in lacrime davanti al telegiornale. Piango perché io sono qui ferma, con il culo al caldo e la tv accesa.
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