Una città mai vista prima.
Copenhagen.
In bici attraversarla in lungo e in largo, dopo abbandonare il mezzo e camminare per i parchi.
Osservando.
Un uomo lontano, in fondo, assorto su una panchina. Immaginare quale vita, quali pensieri: una donna che forse non l’ama, scappare in Africa e perdersi in un suq, definitivamente, dovrò comprare il pane o no, questa sera, rincasando.
Andare avanti e incontrare un gruppo di anatre guardiane, immaginarle intente a difendere chissà quali segreti, per quelle strade d’erba apparentemente innocue.
Incontrare una fontana, fidarsi dei dettagli – schizzi d’acqua – incantarsi nelle traiettorie di ogni goccia, come d’inverno davanti al fuoco del camino.
Una statua buffa ci osserva a sua volta, sorniona, con 4 occhi, due i suoi e un altro paio quelli del pennuto che gli fa da copricapo. Forse, pure lui, è lì da sempre.
Con una corsa da ragazzaccio con le ginocchia piene di cerotti e la fionda nella tasca dei jeans, spaventare uccelli e alzare in volo nuvole di piume. Per immaginare, in un frammento di quel battito d’ali, di poter spiccare il balzo verso l’alto. Come nel sogno ricorrente che ci scuote le notti da un po’.
Sbirciare tra le fronde, spingendoci con l’occhio della macchina fotografica là dove il nostro non arriva. Rimbalzare, sull’acqua e tra i riflessi. Alla ricerca, poi, di cosa.
Gettare i pensieri, uno a uno, dopo fatto l’appello, su quelle barchette colorate e ballerine, via a scivolare su percorsi setosi come olio. E immobili: uno specchio dove il tempo non s’affaccia mai.
Perdersi sulle strade dei bimbi, cartonati che promettono pomeriggi di luna park, disegni che confondono i panorami e li rendono avventurosi come un album di figurine cominciato adesso, il primo pacchetto appena aperto in mano .
Con una corsa da ragazzaccio con le ginocchia piene di cerotti e la fionda nella tasca dei jeans, spaventare uccelli e alzare in volo nuvole di piume. Per immaginare, in un frammento di quel battito d’ali, di poter spiccare il balzo verso l’alto. Come nel sogno ricorrente che ci scuote le notti da un po’.
Sbirciare tra le fronde, spingendoci con l’occhio della macchina fotografica là dove il nostro non arriva. Rimbalzare, sull’acqua e tra i riflessi. Alla ricerca, poi, di cosa.
Gettare i pensieri, uno a uno, dopo fatto l’appello, su quelle barchette colorate e ballerine, via a scivolare su percorsi setosi come olio. E immobili: uno specchio dove il tempo non s’affaccia mai.
Perdersi sulle strade dei bimbi, cartonati che promettono pomeriggi di luna park, disegni che confondono i panorami e li rendono avventurosi come un album di figurine cominciato adesso, il primo pacchetto appena aperto in mano .
E statue di lontano, immaginare profeti di ritorno da un viaggio, con parole nuove e domande spolverate di fresco, suonando violini per accompagnare rivelazioni. Immaginarle a raccontare storie davanti a una pagoda, tanti Marco Polo a cantare con echi di smalto.
Il jolly è : vagabondare e lasciarsi rapire da una distesa verde che invita alla fuga