Quello che mi piace è andare a zonzo per una nuova città. Senza meta né troppe aspettative. Curiosare. Intrufolarsi. Assaggiare.
Come abbiamo fatto a Copenaghen.
Una città mai vista prima. Copenhagen.
In bici attraversarla in lungo e in largo, dopo abbandonare il mezzo e camminare per i parchi.
Osservando.
Un uomo lontano, in fondo, assorto su una panchina. Immaginare quale vita, quali pensieri: una donna che forse non l’ama, scappare in Africa e perdersi in un suq, definitivamente, dovrò comprare il pane o no, questa sera, rincasando.
Giornata grigia.
Grigia che a ogni nube che s’affossa sotto il cielo rasenta il temporale.
Minaccia di temporale in una città del nord, Copenaghen. Che tu attraversi a passi brevi, curiosi.
T’appiccichi con gli occhi ai cartelloni: non riconoscendo le parole, ti fidi delle immagini. Le studi come dovessi decifrarle, come se la comprensione di quelle strade passasse dalla pubblicità di un dentifricio, dall’annuncio di un evento, da un graffito urbano. (altro…)
Sono stati tre giorni pieni, intensi, in una città nuova di zecca e piena di stimoli come Copenaghen. Nordica, ariosa, colorata, caratteristica, invitante.
Siamo partiti di notte come ladri, Federico e io, la scorsa settimana, senza l’entusiasmo che precede il viaggio, un po’ per via del debito di sonno, ma soprattutto all’idea di lasciare i bambini. Sì, perché forse l’ho già detto, ma ogni volta ho la conferma: quando hai figli diventi loro schiavo. In presenza e in assenza, è un fatto.
La regola è: ogni occasione è buona. Per una che, come me, in un ‘altra vita è stata certamente nomade, nessuna occasione di viaggio viene sprecata. Fosse pure una gitarella veloce nel paese dietro la collina.
Così, quando a febbraio Federico ha compiuto 40 anni, il regalo l’ho fatto anche a me (del resto, se una coppia deve dividere la cattiva sorte, a maggior ragione dovrà farlo con la buona, no?). E ho prenotato un pacchetto in offerta, volo più hotel.
Riuscii a fare pace con quel posto, ma non passava giorno in cui cercassi attorno a me cose che non c’erano, proprio come la lingua che va a cercare i buchi dove hai perso i denti. E non parlo solo di vacche o di meli, è qualcosa di molto più profondo. Il tempo, per esempio. L’aria, l’odore che ha perché si respirano cose vive, l’erba e gli alberi e non so che altro, le creature della terra. I suoni, mi mancavano quasi tutti. […] Non mi ero mai accorto cos’era che mi teneva al mio posto sul pianeta terra: la colonna sonora. Quella, e il colore delle foglie, e cosa fiorisce nei fossi questa settimana, i piselli odorosi selvatici, o i fiori viola di vernonia o quelli gialli della verga d’oro. E stelle. Un cielo buio come il sonno, non questo coso dall’alone dorato, parlo di un nero da cecità. Per molti di noi è una medicina. Necessaria per il riavvio quotidiano.
(Barbara Kingsolver, Demon Copperhead)
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