12 marzo
Brooklin, arrivarci a piedi, attraversando il ponte in una giornata di sole, di ventosa primavera. Mentre lo percorro penso che Eliandro, da piccolo, era convinto che questo ponte fosse fatto di chewingum.
Ci fermiamo per un caffè in un bar agli Heights. Una coppia anziana – lui capelli bianchi e tenuta sportiva, lei occhiali appariscenti e un allegro cappellino in feltro fuxsia- viene al nostro tavolino per offrirci indicazioni, con la cortesia e la delicatezza che ti aspetti dai vecchi amici. Vivono proprio lì a pochi passi e lui tanti anni fa è stato a Roma. Lo dice con malinconia. Poco dopo escono dal locale – lei una mano sul cappellino per non farselo prendere dal vento e l’altra in quella di lui.
Se ne vanno nella loro New York. Una città mondo che ne tiene dentro infinite, come una matrioska. Ognuno ha la sua, ognuno ne tiene in tasca un morso.
Bastano due giorni per capire che è una città che non si esaurisce, dai confini mobili, camaleontici, che si dischiude di continuo, a ogni passo, dietro ogni angolo. Chi la attraversa mette insieme a suo modo reale e immaginario, vero e inventato, visto e raccontato, in un puzzle in cui alla fine più che un luogo si riconosce la mappa mentale di un percorso, in parte studiato e in parte casuale.
Intanto il vento lucida il cielo e lo sguardo scivola lontano, alle strade mostrate nei film, a quelle finite dentro ai romanzi, ai grattacieli azzurri di Manatthan e, appena prima, all’imponente ponte di chewingum.
13 marzo
Ny Pubblic Library (la scrivania di Dickens), Time Square, una lunga camminata in Central Park (le prime fioriture, “son tornate le anatre”), sbucare nell’Upper West Side e percorrere la riva dell’Hudson, il caos urbano di Hell’s Kitchen, Chelsea e ancora Gramercy: oggi sotto i nostri occhi Manhattan che cambia faccia e si mette in posa, a ogni angolo.
Il bello di infilare passi uno dietro l’altro scegliendo una direzione ma lasciandosi portare dall’ispirazione del momento.
Quando torneremo a casa, avremo scarpe da risuolare. But you are in New York City, baby!
14 marzo
Passare da Manhattan ad Harlem percorrendo la Fifhty Avenue è come fare un viaggio spazio temporale in qualche manciata di chilometri. Poco prima sei tra i benestanti dell’Upper Est Side a sorseggiare matcha tra un negozio per manicure e uno dei mille fiorai e un attimo dopo le strade si fanno larghe, confuse, rumorose, la gente parla forte e sembra avere un’energia debordante.
Dopo prendiamo la metro ed ecco Chelsea e il suo storico Market. E poi le strade pittoresche di Greenweech village, i locali pieni di giovani che mangiano ostriche ai tavolini dei dehors. Ci sono così tante cose in pochi isolati che impiegherò un tempo molto più lungo di questo viaggio, per mettere in ordine le sensazioni e le impressioni che sto collezionando qui. Forse per questo motivo chi visita New York sostiene che è una città che ti resta appiccicata addosso: è così densa e intensa ed enigmatica che non la si può comprimere nel tempo che le destini.
15 marzo
Se come dicono (e scrivono sui muri) New York è uno stato della mente, Coney Island è una specie di sobborgo onirico. Uno di quei posti che, dopo esserci stato, ti chiedi se esista davvero. Con le sue giostre in disuso, la ruota panoramica che spicca sul bordo dell’oceano, le montagne russe che lambiscono la sabbia chiara battuta dalle onde. C’è la musichetta del luna park anche se il luna park è chiuso, c’è odore di salsedine e i gabbiani che tagliano il cielo.
E poi ancora Brooklin, la skyline di Manhattan dalla Brooklin Heights Promenade, la sua vita pulsante, i locali pieni di persone con un pc e una bibita e le donne che leggono al sole sui gradini delle case in mattoni rossi.
Noi camminiamo, attraversiamo quartieri, incontriamo gli sguardi della gente, assaggiamo bagel e piatti etnici, beviamo matcha e caffè e lasciamo che una pellicola infinita ci sfili senza sosta sotto gli occhi.
16 marzo
La Hight Lìne è una lunga passeggiata urbana sui binari di una vecchia linea ferroviaria. Gli scorci tra edifici e grattacieli sono da mettersi comodi su una panchina e lasciar fare alla città.
Ecco, la sensazione che mi ha fatto NYC: puoi metterti comodo e lasciar fare. È lei a venirti incontro mentre infili un passo dietro l’altro senza troppa attenzione alla direzione. Tu guarda, annusa, ascolta. Parla se puoi con le persone. Incrocia i loro sguardi. La Hight Line ti porta dritto all’Hudson River, alla sua acqua grigia che lambisce la passeggiata e di colpo ti torna in mente che sei su una penisola che si affaccia sull’Oceano.
Poi ancora Greenwich village, tra i minuscoli negozi di dischi e strumenti musicali, tra le librerie che vendono libri usati e le caffetterie piene di gente che ti dà l’impressione (probabilmente spesso illusoria) di essere al posto giusto nel momento giusto a fare la cosa giusta.
E di nuovo non ti resta che posare lo zaino, ordinare qualcosa da bere e provare a indovinare tutte le storie che ti gravitano intorno.
20 marzo
Abbiamo fatto quasi 150 chilometri a piedi in sette giorni.
Non si può dire che New York non l’abbiamo percorsa in lungo e in largo, facendoci guidare più dall’ispirazione del momento che da un piano ben preciso (che ci eravamo fatte, con la perfetta consapevolezza che l’avremmo disatteso).
Di questa città mi porto a casa che è una città facile, molto più di quanto immaginassi. Me la facevo più caotica e incasinata, più ostile. Invece non credo di aver mai incrociato tanti volti sorridenti come in questo viaggio. Mi sono interrogata a lungo su quanto possano essere diverse la vita di una newyorkese e la vita di una come me, che sta ai confini dell’Impero; quasi come trovarsi su pianeti diversi. Quell’incessante flusso di persone, così diverse, che ti fa essere uno di nove milioni: rassicura o annichilisce?
Mi ha colpito, tra le altre cose, l’esorbitante quantità di schermi che si trovano in giro – nella metropolitana, per le strade, nei locali. Come se il reale non bastasse, come se servisse una sovrapposizione continua di piani, un caleidoscopico proliferare di storie.
Mi sono chiesta: come si fa a non perdersi? Una cosa di certo mi mancherà: il primo caffè al mattino, sedersi alla vetrina di un bar e guardare la gente passare. Prendere appunti, o non pensare a nulla. Lasciar sfilare tante vite, provare a immaginare. Ho capito quanto mi serve: uscire da me, dai miei soliti circuiti neuronali, dai ricordi e dalle proiezioni. Diventare uno degli infiniti possibili punti di vista sul mondo.
Del resto, non è per questo che si legge, si viaggia, si va al cinema?
E di questo New York è maestra: del portarti altrove, chissàdove, mentre sorseggi un caffè al tavolino di un bar. Mentre altre persone intorno a te telefonano, leggono, scrivono, ascoltano musica, chiacchierano, lavorano al pc, discutono di affari, osservano altre persone fare le stesse cose e altre cose, come in un gioco di specchi. Come essere una storia dentro un’altra, dentro un’altra ancora. E così via fino a scordarsi da dove si era partiti.
Anche solo per questo motivo, grazie New York: spero che il nostro non sia un addio ma un arrivederci.