22 Marzo 2015
Quasi ora di vacanze. Ma non per me. Bè, qualcuno potrebbe obiettare che sono in vacanza da mesi, visto che sono in maternità, ma è vero solo in parte. Un po’ perché le giornate con due nanetti di 18 e 5 mesi non sono proprio come quelle (ormai sbiadite nella memoria) trascorse a sorseggiare cocktail sotto l’ombrellone coi piedi a mollo. E un po’ perché per me vacanza = partire. E da questa equazione non si scappa.
Per andare dove? Ora, considerato che scrivo su un mom blog (o qualcosa che al momento gli somiglia) dovrei consigliare mete a misura di bimbo, quelle con dentro le strutture per giocare, babysitterare, fare bagnetti in vasche mignon. E invece no. Perché comunque: tutti –chi più chi meno- abbiamo avuto una vita childfree e seilcielolovorrà ce l’avremo ancora, un giorno, quando i pargoli saranno cresciuti quel tanto che basta. E allora voglio volare con la fantasia. Anzi di più. Voglio lasciare che la mia immaginazione faccia le capriole per aria e senza rete di protezione. E penso: India. Ancora. Come tutte le ossessioni che si rispettino.
Mi basta socchiudere gli occhi per vedermi nello sterminato deserto del Rajasthan, a Pushkar. Ci sono stata in occasione della Camel Fair e a occhio nudo non si vedeva la fine della distesa di cavalli e cammelli, tanto che all’orizzonte lo potevi scambiare per un tappeto di pelo. Sarei potuta restare seduta per ore a osservare i passanti. Le donne così colorate che sembravano una manciata di stelle filanti lanciate a carnevale, gli uomini con i loro sorrisi sghembi e l’inglese inventato (forse per questo un po’ ci capivamo), le mucche vestite a festa e le scimmie che ti saltellavano intorno. E la voglia di camminare scalza, di vestire come loro, di farmi raccontare una spiritualità diversa, di assaggiare il loro cibo così speziato, saporito e piccante da far lacrimare gli occhi.
E la notte per arrivarci, a Pushkar, è stata una delle più belle della mia vita. Nelle cuccette su un pullman vicino a cadere a pezzi con gli occhi spalancati per non perdere un millimetro di strada, per masticare ogni traccia di quell’India che sfilava davanti al finestrino.
Poi la faccia crudele di quel Paese delle Meraviglie, a Delhi, a dormire nelle stamberghe, a rendersi conto che c’è al mondo chi ha come sola proprietà una bicicletta; e con quella si sposta e lavora, abbracciato a quella ci dorme per strada.
E trovarsi ai crocevia di Viaggiatori, ma non quelli della domenica, come me; quelli che hanno fatto dell’esplorazione il loro credo. E che bello sentirsi parte di quelle Babele linguistiche che ti fanno sentire Cittadino del Mondo e ti fanno vedere quante facce e quanti occhi e quante storie può avere un uomo.
Poi Rishikesh, già quasi montagna, culla dello yoga e dell’ayurveda. Lì ho amato una stradina in mezzo al bosco che costeggia il Gange ed è disseminata di piccoli santuari e di postazioni di eremiti e santoni con le barbe lunghe fino ai piedi, magri come rami nodosi e con gli occhi accesi da mille spiriti. Ho visitato l’ashram del Maharishi dove i Beatles hanno scritto White Album e ho immaginato quella musica in quei luoghi nel fervore degli anni Sessanta. E tutte quelle combinazioni spazio-temporali che purtroppo non ho potuto vivere.
E non smetto di rammaricarmi per non avere parole abbastanza saporite e significative per raccontare le cose viste e quelle sentite. Per non saper esprimere quello che l’India mi ha sussurrato come un segreto. Perché quella terra è ESATTAMENTE come la si immagina ma è anche il suo esatto CONTRARIO.
Che poi non so se consigliarla perché puoi innamorartene ma puoi anche odiarla come l’inferno. Conosco viaggiatori incalliti che non hanno sopportato di restarci due giorni. Io non lo so, cosa esattamente mi ha trasmesso e dove mi abbia punta per arrivare così a fondo.
Non lo so perché mi sento così a mio agio a osservare quella variegata umanità sorseggiando un chai su una terrazza piena di scimmie e scoiattoli.
L’ho già detto: io probabilmente ci ho già vissuto, laggiù.
O forse tutti ci siamo già stati in un’altra vita, in quella terra, con quella sua luce d’albume, che mi sembra il mattino del mondo.
Il jolly è: tornare là. Prima che si può
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