3 luglio
È stato un onore incontrare chi, attraverso le sue parole, ha dato nuova vita veste e linfa a “Quando la montagna era nostra”. È divertente e un po’ straniante pensare che la mia microscopica e selvaggia valle trentina possa essere scoperta tra le polverose strade del Cairo o su una spiaggia assolata di Sharm El Sheikh.
Il bello delle storie, dei libri: avvicinare luoghi geograficamente distanti. Avvicinare le persone. Fare incontrare.
È già moltissimo, no?
Te la ricordi, la Bambina che c’è in te?
Dopo una settimana in città, tra strade trafficate e mezzi strabordanti, questo era quello che mi serviva: una mattinata di silenzio e solitudine.
Due giorni tra monti e mare con Eliandro e non si può dire che ci siamo annoiati. Se raccontassi tutto quello che ci è successo probabilmente non ci credereste (e fra l’altro non ne uscirei nel migliore dei modi).
Tutta questa fatica quando bastava nascere gazza? (istanti rubati a #giugno2024)
Giugno è una cupola azzurra, un coperchio di vetro: se ci guardi attraverso intuisci i misteri del cielo.
Del mio esame di terza media, ricordo con esattezza di aver copiato durante lo scritto di matematica.
Orale dell’esame di terza media
“Le porte dell’estate dell’inverno son bagnate”
Una boccata di verde e papaveri (istanti rubati a #maggio2024)
5 maggio
Domenica di maggio.
Yoga. Napoleone e i combustibili fossili. Tesina sull’Infinito. Zuppa di ceci e cavolo nero. Uncinetto. Milan Kundera.
Una boccata di verde e papaveri.
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
8 maggio
Quando all’alba mi sono svegliata, stavo per lanciarmi con la zip line. Le persone che si buttavano prima di me avevano smorfie di preoccupazione e una volta appese remavano nel vuoto, annaspavano sventolando le braccia come se fossero loro a dover decidere la direzione e l’andatura.
Stamattina, dopo giorni di pioggia, il cielo è asciutto. Nuvolo ma le previsioni dicono: migliorerà. In stazione, poco prima che partisse il treno, due donne e una ragazza si sono messe in posa per farsi fare una foto, abbracciate. A volte salutarsi prima di un treno è un salto appesi a un filo. Molte cose lo sono – in certi casi lo sappiamo prima, in altri lo scopriamo poi. Quello che si può fare è regolare bene l’imbragatura e aver fiducia nel filo.
9 maggio
Quello che vuol dire, per me, stare bene.
Stai bene è quando vedi, in ogni giorno che comincia, un luccichino di speranza.
Una cosa anche minuscola, come quando ti siedi sulla riva di un fiume e un raggio di sole lo tocca e si sbriciola e una di quelle briciole ti sfarfalla tra le ciglia e tu socchiudi gli occhi e sai che di quella scintilla puoi fare qualcosa di buono.
Stare bene è una cosa piccola, ma neanche poi tanto, a starci attenti.
22 maggio
Certi giorni mi sembra che si sia congelato un certo dialogo che intrattenevo con me stessa. Con una certa parte di me che trascende la ragione e arriva a vedere oltre il muro, sopra il tetto, dietro le porte chiuse. Come se quel canale si fosse ristretto, infeltrito. Le parole che prima cadevano a pioggia adesso devono farsi piccine, per passare attraverso. Giungono a me rinsecchite, infeltrite, apparentemente inusabili. Intraducibili.
Mi vengono meglio altre cose, al momento. Lo yoga, l’uncinetto. Fare ricerche su disparati argomenti. Fare cose con le mani, con il corpo. Sgarbugliare nodi, cercare l’equilibrio sulle mani. Ascoltare. Andare nell’orto a controllare la crescita delle zucchine e dello scalogno. Forse questo non è il tempo della messa a fuoco. È un tempo bislacco, fuori stagione come queste piogge che sembrano non finire.
Ma ogni cosa verrà quando e come deve, mi dico. La natura sa come far germogliare il seme. Forse non serve che lo sappia anch’io.
In treno, la donna seduta di fronte a me attacca discorso.
Sulla vecchiaia (mia), parte seconda.
Continui a cercare fuori.
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a sentire la Vita che va celebrata (istanti rubati a #aprile2024)
18 aprile
mi regalo perline e del filo per fare orecchini
mi regalo di chiamare i miei figli bambini
anche se il tempo tesse il suo arazzo
e toccherà chiamare il bambino
ragazzo
mi regalo del tempo vicino a chi amo
che l’amore è la madre di quello che siamo
ma è pure il padre il nonno e il fratello
l’amore è la cura e allevia il fardello
mi regalo un siero che pialla e rimpolpa
le rughe son belle però a mia discolpa
io dico non serve volerle più in fretta
le aspetto tranquilla con una birretta
mi regalo un incontro con la cartomante
anche se forse non servirà a niente:
il futuro lo posso senz’altro aspettare
quel che vorrei è capire il presente
mi regalo dei vuoti da riempire al momento
col cuore ben desto e il telefono spento
e giorni animati come i cartoni
che la sera sei stanco ma vincono i buoni
non festeggio quest’anno
mi son ripetuta
ma festeggiare è anche solo
restare seduta
magari in un prato a fine giornata
a sentire la Vita
che va celebrata.
25 aprile
Sarebbe già tanto potersi liberare
delle corazze inutili
degli inestetismi
delle cattive abitudini
di tutti i fascismi
delle malelingue e della malasorte
della paura delle linee che vengono storte
di quel che va stretto
di tutto il non detto.
Sarebbe già molto dire addio
a chi non dà ascolto
alle vuote pretese dell’io
ai dettami insensati della rabbia
a chi sale in barca e non vuol remare
ai sogni atrofizzati dentro una gabbia:
apri la porta, lasciali andare!
Sarebbe già abbastanza
spremere la sostanza
dei giorni e conservare la polpa:
disperdere al vento
le acrobazie dell’ego
e tutti i sensi di colpa.
28 aprile
Ci sono giorni che per intensità valgono mesi.
Ci sono legami che per intensità diventano Famiglia.
Abbiamo battuto bicchieri e ballato nella neve, abbiamo riso e cantato e mischiato lacrime alla birra, ci siamo scambiati aneddoti come figurine, ci siamo incontrati, ritrovati e riconosciuti e ci siamo abbracciati forte da tenerci in piedi. Abbiamo mescolato incazzatura e gratitudine in parti quasi uguali.
Sono usciti Ti ricordi? a fiume, e pure rabbia – rabbia che ribolliva come lava dietro le parole e poi anche incredulità e quel po’ di pace che nasce dai cuori che si toccano.
Se ne sono andati i nostri giorni giovani, ci è sembrato di capirlo adesso – ma non sono passati invano e quello che hanno lasciato sta fuori dalla giurisdizione del tempo. E quello che hanno lasciato certamente basta per tenere il nostro fuoco acceso.
Le nostre divinità di pietra non hanno smesso di sorvegliarci i passi.
E noi c’eravamo tutti. Ma proprio TUTTI.
But you are in New York City, baby! (istanti rubati a #marzo2024)
12 marzo
Brooklin, arrivarci a piedi, attraversando il ponte in una giornata di sole, di ventosa primavera. Mentre lo percorro penso che Eliandro, da piccolo, era convinto che questo ponte fosse fatto di chewingum.
Ci fermiamo per un caffè in un bar agli Heights. Una coppia anziana – lui capelli bianchi e tenuta sportiva, lei occhiali appariscenti e un allegro cappellino in feltro fuxsia- viene al nostro tavolino per offrirci indicazioni, con la cortesia e la delicatezza che ti aspetti dai vecchi amici. Vivono proprio lì a pochi passi e lui tanti anni fa è stato a Roma. Lo dice con malinconia. Poco dopo escono dal locale – lei una mano sul cappellino per non farselo prendere dal vento e l’altra in quella di lui.
Se ne vanno nella loro New York. Una città mondo che ne tiene dentro infinite, come una matrioska. Ognuno ha la sua, ognuno ne tiene in tasca un morso.
Bastano due giorni per capire che è una città che non si esaurisce, dai confini mobili, camaleontici, che si dischiude di continuo, a ogni passo, dietro ogni angolo. Chi la attraversa mette insieme a suo modo reale e immaginario, vero e inventato, visto e raccontato, in un puzzle in cui alla fine più che un luogo si riconosce la mappa mentale di un percorso, in parte studiato e in parte casuale.
Intanto il vento lucida il cielo e lo sguardo scivola lontano, alle strade mostrate nei film, a quelle finite dentro ai romanzi, ai grattacieli azzurri di Manatthan e, appena prima, all’imponente ponte di chewingum.
13 marzo
Ny Pubblic Library (la scrivania di Dickens), Time Square, una lunga camminata in Central Park (le prime fioriture, “son tornate le anatre”), sbucare nell’Upper West Side e percorrere la riva dell’Hudson, il caos urbano di Hell’s Kitchen, Chelsea e ancora Gramercy: oggi sotto i nostri occhi Manhattan che cambia faccia e si mette in posa, a ogni angolo.
Il bello di infilare passi uno dietro l’altro scegliendo una direzione ma lasciandosi portare dall’ispirazione del momento.
Quando torneremo a casa, avremo scarpe da risuolare. But you are in New York City, baby!
14 marzo
Passare da Manhattan ad Harlem percorrendo la Fifhty Avenue è come fare un viaggio spazio temporale in qualche manciata di chilometri. Poco prima sei tra i benestanti dell’Upper Est Side a sorseggiare matcha tra un negozio per manicure e uno dei mille fiorai e un attimo dopo le strade si fanno larghe, confuse, rumorose, la gente parla forte e sembra avere un’energia debordante.
Dopo prendiamo la metro ed ecco Chelsea e il suo storico Market. E poi le strade pittoresche di Greenweech village, i locali pieni di giovani che mangiano ostriche ai tavolini dei dehors. Ci sono così tante cose in pochi isolati che impiegherò un tempo molto più lungo di questo viaggio, per mettere in ordine le sensazioni e le impressioni che sto collezionando qui. Forse per questo motivo chi visita New York sostiene che è una città che ti resta appiccicata addosso: è così densa e intensa ed enigmatica che non la si può comprimere nel tempo che le destini.
15 marzo
Se come dicono (e scrivono sui muri) New York è uno stato della mente, Coney Island è una specie di sobborgo onirico. Uno di quei posti che, dopo esserci stato, ti chiedi se esista davvero. Con le sue giostre in disuso, la ruota panoramica che spicca sul bordo dell’oceano, le montagne russe che lambiscono la sabbia chiara battuta dalle onde. C’è la musichetta del luna park anche se il luna park è chiuso, c’è odore di salsedine e i gabbiani che tagliano il cielo.
E poi ancora Brooklin, la skyline di Manhattan dalla Brooklin Heights Promenade, la sua vita pulsante, i locali pieni di persone con un pc e una bibita e le donne che leggono al sole sui gradini delle case in mattoni rossi.
Noi camminiamo, attraversiamo quartieri, incontriamo gli sguardi della gente, assaggiamo bagel e piatti etnici, beviamo matcha e caffè e lasciamo che una pellicola infinita ci sfili senza sosta sotto gli occhi.
16 marzo
La Hight Lìne è una lunga passeggiata urbana sui binari di una vecchia linea ferroviaria. Gli scorci tra edifici e grattacieli sono da mettersi comodi su una panchina e lasciar fare alla città.
Ecco, la sensazione che mi ha fatto NYC: puoi metterti comodo e lasciar fare. È lei a venirti incontro mentre infili un passo dietro l’altro senza troppa attenzione alla direzione. Tu guarda, annusa, ascolta. Parla se puoi con le persone. Incrocia i loro sguardi. La Hight Line ti porta dritto all’Hudson River, alla sua acqua grigia che lambisce la passeggiata e di colpo ti torna in mente che sei su una penisola che si affaccia sull’Oceano.
Poi ancora Greenwich village, tra i minuscoli negozi di dischi e strumenti musicali, tra le librerie che vendono libri usati e le caffetterie piene di gente che ti dà l’impressione (probabilmente spesso illusoria) di essere al posto giusto nel momento giusto a fare la cosa giusta.
E di nuovo non ti resta che posare lo zaino, ordinare qualcosa da bere e provare a indovinare tutte le storie che ti gravitano intorno.
20 marzo
Abbiamo fatto quasi 150 chilometri a piedi in sette giorni.
Non si può dire che New York non l’abbiamo percorsa in lungo e in largo, facendoci guidare più dall’ispirazione del momento che da un piano ben preciso (che ci eravamo fatte, con la perfetta consapevolezza che l’avremmo disatteso).
Di questa città mi porto a casa che è una città facile, molto più di quanto immaginassi. Me la facevo più caotica e incasinata, più ostile. Invece non credo di aver mai incrociato tanti volti sorridenti come in questo viaggio. Mi sono interrogata a lungo su quanto possano essere diverse la vita di una newyorkese e la vita di una come me, che sta ai confini dell’Impero; quasi come trovarsi su pianeti diversi. Quell’incessante flusso di persone, così diverse, che ti fa essere uno di nove milioni: rassicura o annichilisce?
Mi ha colpito, tra le altre cose, l’esorbitante quantità di schermi che si trovano in giro – nella metropolitana, per le strade, nei locali. Come se il reale non bastasse, come se servisse una sovrapposizione continua di piani, un caleidoscopico proliferare di storie.
Mi sono chiesta: come si fa a non perdersi? Una cosa di certo mi mancherà: il primo caffè al mattino, sedersi alla vetrina di un bar e guardare la gente passare. Prendere appunti, o non pensare a nulla. Lasciar sfilare tante vite, provare a immaginare. Ho capito quanto mi serve: uscire da me, dai miei soliti circuiti neuronali, dai ricordi e dalle proiezioni. Diventare uno degli infiniti possibili punti di vista sul mondo.
Del resto, non è per questo che si legge, si viaggia, si va al cinema?
E di questo New York è maestra: del portarti altrove, chissàdove, mentre sorseggi un caffè al tavolino di un bar. Mentre altre persone intorno a te telefonano, leggono, scrivono, ascoltano musica, chiacchierano, lavorano al pc, discutono di affari, osservano altre persone fare le stesse cose e altre cose, come in un gioco di specchi. Come essere una storia dentro un’altra, dentro un’altra ancora. E così via fino a scordarsi da dove si era partiti.
Anche solo per questo motivo, grazie New York: spero che il nostro non sia un addio ma un arrivederci.
Quando la Montagna era in arabo
Qui mi dovete credere sulla parola perché la copertina verde porta il titolo “Quando la montagna era nostra” e il ghirogo sopra è il mio nome e cognome.
Il libro è stato tradotto in arabo e presentato al Salone del libro del Cairo.
Dalla mia casupola tra i monti alle Piramidi ne ha fatta di strada, questo ragazzetto di carta… e io resto a guardare il suo viaggio, grata per questa nuova tappa.
Chissà se ci sono gazze e mamme, sulla luna (istanti rubati a #febbraio2024)
15 febbraio
Intorno alle alle cinque, in casa nostra, Alexa fa un annuncio: Promemoria, andare dai polli.
I bambini scendono con le giacche peggiori e gli stivaletti e armati di pazienza e una carriola portano i polli dal prato, dove si sono sollazzati durante il giorno, al pollaio. Sono galline giovani, non hanno capito ancora come andarci da sole e non sopravviverebbero, la notte, agli agguati delle volpi, delle faine. Forse dei lupi.
Spesso li guardo dal balcone. I frulli di ali e le zampate che si prendono in faccia. Le rincorse. Gli agguati giocosi del cane. Come ridono. Le tattiche messe a punto per non farli scappare.
Amano fare questo più che studiare, e io li rimprovero, ma penso che anche questo è un bel compito: mettere al sicuro chi da solo non può, portare a casa le uova per farci una frittata per cena.
Sono giorni di caldo oltre misura, per essere febbraio. Tutto è fango intorno a casa. Si va a camminare con gli stivali perché pare di muoversi tra le sabbie mobili. E nelle sabbie mobili ci siamo davvero: per averne contezza basta aprire un giornale, sbirciare una polemica sui social. C’è un’energia pesante, mi sembra. Qualcosa che impasta i pensieri, li intride, li tira in basso.
È solo una sensazione mia?
Ieri notte ho sognato un fiume scuro che si inabissa e tanti che davanti a me ci si buttano, veloci, tenendo il fiato per non sentire il freddo. Io resto a riva, non sapendo dove mettere le mie cose: dove lasciare i vestiti, il telefono, gli anelli?
Chiamavo, chiedevo: dove le lascio le cose? Dove sono le cose di tutti?
Eppure sembrava salvifico andare, buttarsi: un rito necessario.
A che mi servivano tutte quelle COSE?
Che cosa ci serve DAVVERO?
Ci preoccupiamo di tanto, di continuo. Eppure -mi dico- come vivremmo bene se bastassero quelle poche, minime certezze: qualcuno che al mattino ci accompagna al sole a lucidarci le piume e che la notte ci tiene al sicuro.
21 febbraio
“Per Biofobia si intende qualsiasi atteggiamento negativo nei confronti della natura”. Un recente articolo su Internazionale dice che è sempre più diffusa e che aumenta con la lontananza dell’uomo dalle aree naturali. Dice che è pericolosa per la tutela dell’ambiente. Io dico che è pericolosissima anche per chi la prova, che vive cento volte peggio di come potrebbe.
Per curarla si fa così:
bagni di neve (se ancora si trova)
notti nel bosco
sguazzare negli stagni
docce di pioggia
piedi nudi nell’erba
giocare a palle di fango
impacchi di muschio
lampade di luna piena
scorpacciate di mirtilli selvatici
avvistamento di pipistrelli
intrattenersi coi ragni
arrampicarsi sugli alberi
seguire i gatti all’imbrunire.
E ripetere almeno venti volte al giorno, mattino e sera, che siamo fatti di terra. Questo siamo: ambiziose graziose estrose marionette di terra.
22 febbraio
Se vuoi che i ricordi non svaporino devi visitarli ogni tanto. Devi visitarli come si fa con le vecchie case abbandonate. Armata di una torcia frontale cercarli di notte, in quella terra di frontiera tra la memoria e il sogno.
Io lo faccio spesso. Cammino sui pavimenti logori e aspetto le voci che mi vengono a stanare. Apro il forno in cucina, sento i profumi. Accendo lo stereo e riascolto quella musica. Ogni volta trovo qualcosa che non sapevo ci fosse. Qualcosa che un tempo era lì, invece, è andato perso per sempre. Nel chiaroscuro dell’alba esco in balcone. Mentre la prima luce dirada il buio, accendo una sigaretta – dentro i ricordi lo faccio spesso. Tra i cerchi di fumo cerco con gli occhi quello che c’era.
Sono organismi viventi, i ricordi. Alcuni ti aspettano come cani fedeli accucciati davanti al portone. Altri sono solo uno sguardo giallo nella penombra – un sorso di fumo e son persi.
(Febbraio e io)
Osservatorio astrologico
Ci ero già stata, ma per la prima volta ho osservato la luna. La superficie lunare. I crateri da impatto, le ombre che proiettano i monti. Gli avvallamenti.
Era come starci sopra, camminare le strade del cielo. Ogni tanto mi chiedevo: ma sarà vero? Non sarà mica un cartonato messo lì tanto per illuderci che ci sia altro e irraggiungibile, come in un planetario Truman Show? Naturalmente poi ho pensato a tutte quelle cose dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande e di come è difficile, lì in mezzo, trovare la misura. Mettere in scala quello che siamo e, soprattutto, quello che non siamo.
E se davvero l’universo si spegne? Ho chiesto al povero ragazzo che ci spiegava le stelle e i pianeti, vessato dalle mie mille domande.
Non ci saremo per vederlo, mi ha risposto.
E anche quella mi è sembrata, lì per lì, una certezza fuori scala.
Con febbraio ho un rapporto faticoso da 19 anni ormai, dall’ultimo febbraio che la mia mamma ha visto da qui. È un mese che sento arrivare da lontano, che comincia già in gennaio a raschiarmi in gola, a solleticare quella mia sempiterna propensione a parlare con l’invisibile, a chiamare a raccolta le voci che non passano dall’udito. Febbraio mi rende esperta traduttrice di silenzi.
Intanto, i minuti di luce sono cresciuti come monete nel salvadanaio, è caduta pioggia e pioggia (finalmente), le gallinelle hanno preso a fare molte buone uova. Le gazze che vivono in cortile si son messe a ingrandire il nido di fronte alla finestra della mia camera da letto. Quando sono alla scrivania le guardo lavorare instancabili. Vanno e vengono di continuo. Chissà quando riposano. Chissà come la vedono, da lassù, la luna.
Chissà se ci sono gazze e mamme, sulla luna. Le leggi della fisica dicono che no – ma anche questa mi sembra una certezza fuori scala.
Dodecalogo, le poesie della brina, la luna del lupo (istanti rubati a #gennaio2024)
1 gennaio
Mai come in quest’ultimo periodo mi sono resa conto dell’importanza del nostro sguardo sul mondo. Che va coltivato, con amore e dedizione, perché è un po’ dono e un po’ impegno. Il mio dodecalogo per rieducare gli occhi al significato:
– meno informazioni e più formazione: non lasciarti bombardare da notizie superficiali e chiacchiericcio di fondo ma cerca gli approfondimenti che danno valore e respiro alla tua visione del mondo
– pagine e pagine belle
– semplifica quando puoi ma non forzare la complessità alle tue categorie mentali
– regala risparmia ricicla
– togli più che accumulare: arreda la tua stanza di pensieri leggeri, arieggia spesso, crea spazio intorno e dentro, spolvera risentimenti e cattive abitudini, scrosta la pigrizia, togli la patina di benealtrismo, riconosciti allo specchio, accendi lampade e candele e, quando serve, fai pace con il buio, spazza il pavimento da ogni convenzione
-semina alla giusta distanza, cura con cura i germogli e salvali dalle erbe infestanti
-parti ogni volta che puoi
– abbandona la boria dell’avere più di quel che serve-non esiste possesso che non porti bisogno
– muovi il corpo, ferma la mente; silenzia la mente, amplifica il cuore
– fidati, affidati, surfa la Vita
– favoleggia, infiabati, inventa parole, riti e profezie favolose
– ringrazia.
2 gennaio
Uscire a camminare nel freddo pungente del primo mattino sull’erba croccante, nell’aria ghiaccia che ti acuisce i sensi, nella luce nuova che strizza via il buio dal giorno, è una specie di preghiera: fa’ che io riconosca sempre che c’è tutto quello che mi serve.
6 gennaio
Oggi ringrazio per:
ogni mattone di questa mia casa – le mani di chi l’ha costruita
la stufa che brilla in cucina
gli amici che rendono vive le stanze
il bosco oltre la porta
chi è passato di qui, ed è rimasto
la neve che verrà.
23 gennaio
Ieri notte le temperature sono scese a meno dieci.
Il mattino non partiva la macchina, non partiva il trattore. La terra era un tappeto bianco di miniature preziose.
Ci credi, tu, nelle poesie che scrive la brina? Nelle sculture della galaverna?
Ci credi nelle storie che racconta la luce, prima dell’alba, prima di essere luce?
Leggo Rick Bass, La vita delle rocce. La protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta intaglia piccole barche nel legno che poi affida alla corrente del fiume. Un regalo per chi vive a valle. Un gesto di gentilezza che non chiede ritorno. Un fare e lasciar andare, senza aspettative.
Ci penso, mentre esco a camminare, l’erba scricchiola sotto i piedi e mi viene voglia di pattinare sulle pozzanghere ghiacciate. Mentre l’aria gelida sveglia i sensi, li appuntisce uno per uno, li fa pulsare come il cuore nuovo di un corpo che nasce.
Penso a un gesto gentile, una piccola barca lasciata andare che sarà forse di un bambino, di un passante, di una nutria che ci affonderà i denti arancioni. O sarà del bosco, della luna che si inginocchia sulla sponda per guardare, del letto del fiume, degli spiriti che ci vivono intorno.
Sarà del ghiaccio che ci giocherà un poco -giorni, o settimane- prima di restituirla a primavera.
Ci credi, tu, nei giochi che si inventa il ghiaccio?
Fare e lasciar andare, senza aspettative.
26 gennaio
Gennaio ha portato la Luna del Lupo.
Ieri sera in due abbiamo sfidato il freddo del primo plenilunio dell’anno per camminare lungo strade bianche, silenziose, corteggiate dalla foschia che tratteggia incantesimi.
Non avevamo torce, ma il faro bianco in cielo era voce e ci faceva strada: avanti, da questa parte. Non siate timide. Venite avanti.
Era nostra la notte, l’incredibile festa allestita in onore di nulla, di tutto, in onore di noi che ce ne stiamo rintanati in casa, dentro muri spessi che ci tengono al sicuro, ci tengono al caldo, ci tengono all’asciutto, immersi nella nebbia azzurra del televisore, nel tramestio dei pensieri, nella fame di terra e di cielo soffocata in una tazzina con le gocce per dormire, nella tisana per dormire, nel rito rassicurante del dito sullo schermo – per rilassarci, ci diciamo, per dormire.
Camminavo e mi chiedevo quando abbiamo sottoscritto lo scambio, barattando la fame di terra e di cielo per l’agio. Quando abbiamo messo il silenziatore al buio per non sentire cantare i fantasmi.
Piedi caldi e il cuore in barattolo.
Eppure la luna piena brillava, stanotte, e l’ho sentita ululare nel cuore blu dell’inverno.
29 gennaio
Tre cose sparse di gennaio.
Uncinetto. Scegliere la lana, il progetto. Fare nodi. Ingarbugliarsi. Sciogliere nodi. Rifarli, ma più ordinati. Tu intrecci, ti incasini, tenti, capisci, coreggi, di nuovo dipani; intanto, bene o male, dritto o rovescio, l’ordito cresce.
Correre. Dopo anni e anni e ancora anni che non lo facevo il mio corpo me lo ordina: Muoviti. Oltre lo yoga, oltre alle camminate che ritaglio quando posso. Ho bisogno di sudare, sentire i polmoni che faticano, l’aria fredda che li scuote. Ascolto musica, Wild Baricco, un podcast sulla scrittura. Infilo i piedi nel fango – corro con gli stivaletti, non si dovrebbe lo so. Dieci minuti. Quindici. Al sedicesimo stramazzo. Non mi piace (non ancora almeno) ma fa bene. Capisco che non tutto quel che piace al corpo è gradito alla mente. Mi godo la sensazione del dopo, di lavoro compiuto, di muscoli tornati al mondo a fatica.
Inverno. Ne ho voglia e bisogno. Di questo guscio di noce dove me ne sto acccoccolata per covare i miei semi. Per lucidare parole con cura, come stoviglie dove mettere il cibo; per calibrare la potenza di certe visioni, studiarle in controluce attraverso l’aria dura e azzurra. Per restare nel mio letargo, una creatura senz’occhi nella pancia di terra, le ginocchia contro il petto a sentirmi cuore – sentire che trema. E germoglia.
Baia di Kotor, luci intermittenti e una musica fortunata (istanti rubati a #dicembre2023)
13 dicembre
Federico ha messo le lucine sull’abete in cortile. Sono gialle e intermittenti e quando le guardo di notte -le vedo anche dal letto- mi sembra che la notte sia più larga, spaziosa. Ci stanno dentro più cose.
Quest’anno il freddo lo sento più forte. Non so se è solo una questione di temperatura o di me che invecchio. Non credo. Mi copro, strati su strati. Eppure. C’è un’umidità che passa attraverso i tessuti, la pelle, le ossa. A volte vorrei qualcosa che mi rendesse impermeabile.
È che certi bocconi -anche se non sono destinati precisamente a te- hanno un gusto talmente cattivo che viene da pensare che siano medicine. Ma se poi non lo sono? A che servono, se non curano?
C’è nebbia e starla a guardare dai vetri mi piace. Leggo Baricco, James Still e Thich Nhat Hanh.
Leggere alza la mia temperatura interiore. Come aprire una mappa, disegnare una strada. Come chiamare un’amica. Come stravaccarmi sul divano coi bambini e dire: Scegliete un bel film in tv. Come dicembre, quando si fa tana in cui rannicchiarsi. Come piangere quando fa bene. Come guardare le luci sull’abete – accese spente accese spente – il buio che dura un battito di ciglia.
(Felice Santa Lucia a tutti)
24 dicembre
Per un paio di giorni ho guardato il mio albero dalla stanza da letto: influenza. Me ne sono stata sotto le coperte in uno stato di dormiveglia. Avevo bisogno di questo. Riposo. Letargo. Ne ho bisogno ancora, a guardare bene.
Quando mi sento meglio, leggo. Assaporo con lentezza quella meraviglia che sono i racconti di Rick Bass (La vita delle rocce). Scrivo biglietti di Natale. Scrivo messaggi di auguri.
Luce!, dico. Luce!, scrivo.
Ma lo so, lo sento, che alle volte quello che serve è fare tana nel buio.
Raccogliere le gambe al petto, stringerle con le braccia. Sentirsi il cuore.E allora anche gli auguri sono per piccole cose piene di significato.
Una bella storia – qualcosa di rassicurante a cui pensare la sera.
Un letto da cui vedere le luci sull’albero o uno scorcio amico oltre i vetri.
Una stanza calda – meglio una stufa, qualcosa che brucia, sulla stufa una buccia di mandarino.
Qualcuno che passa a chiederti: ti porto una spremuta d’arancia?
Una caramella, un frutto, un cioccolatino – qualcosa di dolce per mandare via l’amaro.
Una persona a cui vuoi bene che ti scrive: sto meglio.
Qualcuno che va in farmacia al posto tuo.
Avere un piano b e metterlo in pratica senza troppi rimpianti, quando certi progetti vanno in fumo.
Una lettera. Il bosco. Caffè.
E per chi ha la grazia di avere a portata di mano o pensieri le quattro cose che contano: gli occhi giusti per vederle. Anche per chi, ora come ora, questo lusso non sa proprio cosa sia.
Davvero, solo questo. Che sia sotto il sole o nel buio a piombo di una lunga notte boreale: avere gli occhi giusti per vederle.
Auguri a voi.
27 dicembre
A te che sei coraggio e vulcanica immaginazione. A te – tutto cuore e capriole tra le nuvole – che da dodici anni ci riempi la vita di Magia…Grazie per essere esattamente quel che sei. Auguri amor mio!#12
30 dicembre
Quello che devo imparare, soprattutto quando viaggio: stare con la testa sui miei passi, in asse con il corpo. Non, come son solita, oltre la prossima tappa, a sbirciare tra le immagini della prossima meta. Stai qui, adesso, mi dice la Vita: non è per questo che mediti? Mezzore seduta a gambe incrociate o abbandonata in shavasana e poi? La tua mente resta la solita scimmia che senza vergogna nè saggezza dondola di ramo in ramo.
Me lo dice in modi diversi, la Vita. Ad esempio: programmavo l’Ammerica e sono sui Balcani. Croazia, Montenegro. Baia di Kotor. Mangiamo arance mele mandarini fichi secchi rotoli di pizza e involtini di formaggio, ascoltiamo Goran Bregovic, beviamo tisane di Rooibos caramel, leggo Lana Bastasic (meraviglia!).
Costeggiamo la baia di Kotor che è un pezzo di vetro costellato da una strada stretta. Ci perdiamo per i vicoli di tufo seminati di luci e saliamo centinaia di scalini fino ai resti della fortezza di San Giovanni.
Prenoto una notte alla volta, leggo una pagina della guida alla volta, per la maggior parte del tempo mi scollego da Internet ed evito di cercare info commenti foto suggestioni. Ogni scalino mi dico: sto qui.
Respiro. Non penso a ieri, l’ultimo tratto in salita. Non programmo domani, provando a prevedere, premunirmi, prevenire. Mi concedo di immaginare la veduta oltre la curva, tuttalpiù. Il prossimo centimetro sulla mappa.
E sto qui. Che a ben vedere c’è tutto quello che serve – e molto di più.
31 dicembre
Ieri abbiamo camminato sul lungomare di Budva (che a esser sinceri non mi ha colpito granché). Un locale lungo la passeggiata mandava musiche balcaniche e a un certo punto ho visto in lontananza una ragazza orientale -giovane, i capelli scurissimi e lisci tagliati sotto le orecchie – che ballava sulla spiaggia. L’ho vista sorridente, si sarebbe detto felice di quel suo ballo solitario, improvvisato, a pochi metri dal bagnasciuga, a due passi dell’onda. Brava, ho pensato, così si fa. Indifferente al viavai di passanti nel pieno del giorno. Ci sei tu, una buona musica, il mare. Che ti importa se qualcuno ti guarda o nessuno.
Pensavo questo, mano a mano che mi avvicinavo alla ragazza, quando ho scoperto l’inganno: un uomo la stava riprendendo, o fotografando.
Rideva e ballava a favore di obiettivo.
Peccato, ho pensato. E ho pensato quello che vorrei per l’anno nuovo: passi di danza per me. L’entusiasmo e il coraggio di essere quello che sono senza il dubbio di piacere o spiacere a qualcuno.
Una buona musica, chiedo. Una musica fortunata, potendo. E piedi e pensieri liberi di seguire il ritmo, improvvisando la coreografia.
Auguri a voi! Che sia un nuovo anno felice.
Vorrei una finestra sopra i tetti
Vorrei una finestra sopra i tetti
verdi
sopra le terrazze nude
dove la vita brulica e ribolle
dove i gabbiani
becco nero
tagliano il cielo con uno strappo
d’ali
e di notte la luna araba
s’affaccia all’oblò
della mia nave.