Giochiamoci il Jolly: Blog di Fioly Bocca

  • Go to North – Vesteralen e Lofoten Island

    On: 1 Febbraio 2023
    In: viaggi
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    28 dicembre 2022
    Bodo, oltre il circolo polare artico. La chiamano Porta del Nord.
    Ci siamo arrivati ieri notte, il volo due ore in ritardo, mezz’ora a piedi per guardarci intorno, il check in è stato un mazzo di chiavi nella buca delle lettere.
    Oggi ha cominciato a schiarire intorno alle 10. Il paesaggio è indescrivibile. Per terra tutto è neve e ghiaccio, o ghiaccio, o neve ghiacciata e la vera impresa è tenersi in piedi. Camminiamo adagio, quindi, cercando equilibrio, come muovessino ora i primi passi, guardandoci intorno per cogliere più dettagli possibili, per imprimere nella memoria questa luce pazzesca, che adesso, al crepuscolo, non è giorno nè notte.
    All’avamposto del nulla – adesso solo acqua all’orizzonte e montagne basse, imbiancate – aspettiamo il ferry boat.
    Siamo alla porta del Nord, pronti ad attraversarla, su su per il mare della Norvegia, verso la lunga notte polare.

    29 dicembre 2022
    Ieri l’attesa del traghetto per Moskenes è durata ore. Ritardo. Era difficile capire se e quando sarebbe passato (tutto il mondo è paese, quindi).
    Rintanati in una sala d’aspetto/chiosco con cucina orientale, abbiamo aspettato. Leggendo e giocando a carte mentre fuori il buio si infittiva.
    Arriva? Che facciamo se non arriva?
    Ancora una briscola.
    Due pagine di Basho.
    Alla fine, siamo partiti.
    La macchina che abbiamo affittato ce l’hanno lasciata al porto con le chiavi sopra, semisepolta dalla neve. Siamo arrivati alla nostra casetta intorno a mezzanotte, bianco e silenzio e acqua scura tutto intorno: le chiavi erano nella toppa.
    E ancora una volta eccolo qui, il grande maestro Viaggio che viene a dirmi: fidati, affidati. Non puoi tenere tutto sotto controllo.
    Delimiti, recinti, programmi calcolando data e ora, ma la Vita è un vento di tramontana che spariglia le carte, che alza neve ai bordi delle strade e cambia le mappe.
    Allora questo c’è da fare: mettersi comodi e godersi il paesaggio.
    (Questo posto, poi, con le porte aperte e le finestre senza tende, è un ottimo esempio di fiducia nel prossimo).
    E adesso, irriducibilmente verso Nord – le Vesteralen, Sortland e poi su, fino a dove? Vedremo.
    Intanto, andiamo.

    30 dicembre 2022
    Com’era la cosa degli Spiriti Guida?
    Incontrare questi animali, oggi, in un parco semideserto, attorniati dal bianco, dal silenzio rotto dal sibilio del vento, è stata un’esperienza più emozionante di quanto avrei pensato.
    Sono usciti quasi tutti dalle tane, sono venuti a curiosare. (A salutare?) Perfetti ospiti, ci hanno accolti con tutti gli onori. Orsi, lupi, linci, alci, cervi, volpi artiche, buoi muschiati.
    Come era la cosa degli Spiriti Guida?
    Nel dubbio, i miei desideri per il 2023 oggi io li ho confidati a loro… chissà che non mi abbiano sentita.

    31 dicembre 2022
    Andenes. Il luogo più remoto del viaggio, finora.
    Il punto da cui si parte in cerca di balene. Ci siamo arrivati che era buio pesto. Qui anche le ore centrali del giorno non sono che un baluginio, una striscia biancastra all’orizzonte.
    Era buio, dicevo. Ci ha fermati un ragazzo, gli abbiamo offerto un passaggio. Viene dalla Thailandia, è in Norvegia per lavorare. Da Bankok a Andenes, qui, alla fine del mondo. Ci ha offerto un caffè in una stazione di servizio. 
    La luce non veniva e così, senza più aspettarla, siamo andati a camminare sul molo. Il vento era una mano che ti tirava e ti spingeva in ogni direzione e, sotto i piedi, il ghiaccio ti faceva pattinare. Difficile restare in piedi. All’orizzonte: ombre. Poi: mare e poi altra terra e altri monti.
    Non finisce qui, allora, il mondo?
    Non finisce. E allora vi auguro di trovare il vostro punto di equilibrio, e, se lo perdete, trovarlo ancora. E un desiderio potente come un vento che quasi quasi sembra che basti allargare le braccia per alzarsi in volo. Che questo ci salva: un sogno.
    E la voglia di salpare.
    Ogni momento è quello giusto per intraprendere un’azione, anche piccola, che ci faccia sentire che stiamo andando.
    Che c’è nuova luce, nuova terra, anche quando abbiamo l’impressione che sia finita qui.
    Andiamo, allora. Andiamo a vedere.
    Felicità!

    1° gennaio 2023
    Ieri sera, prima di uscire in cerca di alci, fuochi d’artificio e aurora boreale (trovati 2 su 3) come da tradizione abbiamo scritto i nostri desideri/buoni propositi per il nuovo anno su tanti bigliettini che, una volta a casa, metteremo in un barattolo.Stamattina siamo partiti presto. Desideravo fortissimo un caffè, ma niente da fare: il primo dell’anno in Norvegia è quasi impossibile trovare qualcosa di aperto. Siamo arrivati a Nyksund dentro una bufera di neve e ghiaccio che si faticava a tenere aperti gli occhi. Passata nel giro di poco: qui il meteo non annoia mai.
    La Lonely Planet racconta che questo remoto villaggio di pescatori abbarbicato sulle scogliere è una storia di rinascita. Abbandonato nel 1975, a causa di una tempesta che lo ha distrutto, è stato poi ricostruito da un gruppo di artisti. Adesso in inverno ci vivono in cinque. Non abbiamo incontrato nessuno ma abbiamo trovato tracce dei residenti qui e là, sulla neve fresca, nella luce accesa dentro una casa, in un gatto raggomitolato dentro una roulotte.
    Intanto il mare oltre la barriera del porto ruggiva che avreste dovuto sentirlo.
    Chi può vivere qui, dove la strada si inabissa in mezzo alle rocce, tra neve e vento e acqua, sul confine di un mare che dà l’impressione di non pacificarsi mai… Eppure, qualcuno ha avuto il coraggio di ricominciarsi da qui.
    Aggiungo questo, mentalmente, ai miei propositi: ricominciarsi sempre.
    Anche se il mondo non inizia e non finisce. E noi?
    Noi neppure.
    Noi possiamo dare vita a nuove versioni di noi stessi e di quel che ci sta intorno. Che altro serve? Gratitudine, perchè è una cosa mica piccola, questa.
    (Il caffè l’ho trovato intorno alle tre, in una stazione di servizio, dentro una notte già fermissima. Annoto anche questo, caro 2023: molto arriva a chi sa cercare – oltre a: fai scorta di caffeina ogni volta che puoi).
    Buon ri-cominciamento a tutti!

    2 gennaio 2023
    “La conoscenza del movimento costante del presente gli permette di abitare il viaggio”.
    Lo scrive Chandra Livia Candiani a proposito di Basho, autore (fra il resto) di “Lo stretto sentiero del profondo Nord”. Questo libro è stato un colpo di fulmine in aeroporto e ne leggo ogni giorno alcune pagine.
    La frase sopra mi ha fatto molto pensare. Si cerca tanto -nello yoga, nella meditazione- la presenza cosciente. Quell’essere tutto nell’attimo, che riesce meglio (credo) quando ci si dedica ad attività nuove, non ripetitive.
    Fatico a comprenderla. Mi sforzo, ma ho l’impressione che sempre mi sfugga qualcosa.
    Però in quel porto di Bodo, prima dell’imbarco per questo luogo mai visto prima, ero davvero tutta nel presente, con il cuore accelerato per l’emozione. È questo che cerchiamo?
    Abitare il viaggio.
    Abitare l’attimo. Essere lì dove la tua vita succede: questo è il senso? Forse la sfida è portare quel sentimento di possibile nelle cose piccole di ogni giorno. Quando suona la sveglia il mattino e c’è un treno da prendere, un pc da accendre, una moka da mettere sul fuoco, la scatoletta del gatto da versare nella ciotola.
    Il sentiero è stretto, ci dice Basho. Quello che vale la pena raggiungere, merita lo sforzo. Tocca provare.
    Abbiamo raggiunto le Lofoten poco fa. La nuova casa è calda e accogliente. Ci sono calzini di lana nella cesta accanto all’entrata, lucernari sopra i letti, coperte di pecora sulle poltroncine e un vecchio telefono sulla cassettiera. Fuori piove, bevo un black chai e leggo qualche pagina mentre i bambini fanno i compiti. La notte è già incollata ai vetri e le luci delle case in lontananza raccontano un’infinità di storie.
    “Celebre luna
    così mutevole è il tempo
    nel paese del Nord.”
    Basho

    3 gennaio 2023
    Nusfjord è un villaggio conosciuto sulla costa di Flakstadoy. Ci abbiamo trovato diversi turisti italiani, almeno una decina – un numero altissimo per lo standard del viaggio.
    Siamo entrati in un caffè con i tavoli accanto a finestre a picco sul mare, i candelabri a triangolo che usano qui. Di fronte c’era l’esposizione di due artiste norvegesi contemporanee (tele con aurore boreali e deliziose piccole carte con tratteggi di volpi e orsi e foreste e gente in cammino).
    È stato strano e bello, in questo pezzettino di mondo sperduto, incontrare e riconoscere @bookwithoutfrills con cui ci seguiamo su Instagram.
    Vikten lo abbiamo trovato deviando sulla via del ritorno: un villaggio rurale steso sulle scogliere, le case sparpagliate come carte cadute da un mazzo intorno all’unica strada, arrosata dalla luce del tramonto.
    Abbiamo camminato sulla spiaggia – la neve che si trasforma in sabbia, e poi in onde nerissime e all’orizzonte in altre rocce e neve. Abbiamo mangiato pane spalmato di una salsa al bacon spremuta da un tubetto, osservato un’aquila di mare appollaiata su uno scoglio.
    Pochi incontr, qui.
    Un uomo spalava l’ingresso della piccola scuola mentre un bambino tutto intabarrato lo aspettava sul trattore.
    Tre ragazzine bionde sulla strada di ghiaccio, gli sguardi intimiditi e le risate complici, i visi arrossati, i capelli biondissimi nel vento. Intorno a loro il nulla, davanti agli occhi tutta la vita e loro pronte sul bordo, alla vigilia del tuffo.
    Alle loro spalle, tra le montagne aguzze e il mare, una luna gigante si spostava alla velocità di un sottomarino.

    4 gennaio 2023
    L’aurora boreale è un fenomeno atmosferico ma somiglia a una benedizione.
    O è il contrario?

    4 gennaio 2023
    “Nord
    Mille e una notte laggiù.
    Luna nel viaggio
    Tra le aquile”
    Questa mattina ci siamo alzati con l’aurora boreale ancora negli occhi. Mentre mi vestivo (il solito outfit multistrato) ho messo Nord di Paolo Conte in loop.
    Fuori c’erano 10 gradi sotto lo zero, una luna tonda che ci ha seguiti tutto il giorno come l’occhio di Odino e la neve che scintillava sotto i fanali, seminata di lucciole.
    Al supermercato, la cassiera ci ha detto: Sono felice oggi, il sole sta tornando.
    Ma mi creda, avrei voluto dirle, a me basta questa notte polare, questa luce lunare, tutta questa bellezza irreale, che non fa che urlare guardami, guarda dove sei, guarda quello che hai intorno…
    Abbiamo camminato (pattinato) sul lungomare di Eggum mentre i bambini conversavano di un videogioco che vogliono realizzare e si lanciavano di culo sulle scogliere innevate, mentre la notte si scioglieva in rivoli e strisce e bagliori e Paolo Conte cantava nella mia testa, solo per me. Lui cantava e io cercavo parole per dire tutta quella bellezza, ma nessuna era appuntita e potente abbastanza.
    Ho respirato, guardato intorno. Mi son detta Pazienza. A che servono?
    Non servono mica.

    5 gennaio 2023
    Eravamo a Reine, poco prima dell’ora di pranzo, quando Federico ha urlato: guardate là!Il sole. Un’unghia di luce sul mare.
    Per la prima volta da quando siamo qui (ecco cosa intendeva, ieri, la cassiera al supermercato), il disco arancione è uscito dal letargo. Uscito non proprio: ha giusto fatto capolino per dare un’occhiata, per verificare che tutto fosse in ordine. La lunga e inviolata notte artica è finita anche per quest’anno. Comincia un nuovo ciclo.
    Così, nel cuore del duro assedio di Generale Inverno, si intravede il miraggio di nuovo caldo, nuova vita che fiorisce. Non è questo il miracolo? Questa ruota che gira, questo eterno andare verso qualcosa.
    Oggi il vento era scatenato e stare fuori a lungo difficile. Abbiamo attraversato in auto Flakstadoy, ho camminato sola sulla sabbia bianca della spiaggia di Ramberg. Guardandomi intorno, mi aspettavo a ogni istante di vedere sbucare Gandalf con il suo bastone ritorto o una creatura del regno di Narnja.Il sole si è mostrato per una mezz’ora soltanto -un’alba mischiata al tramonto- prima di tornare a cedere lo scettro alla lucentezza della luna. Ma la sua coda rosata ha trasformato il paesaggio un’altra volta: un altro piccolo grande gioco di prestigio di questo cielo irreale.

    6 gennaio 2023
    Henningsvaer è chiamata la Venezia delle Lofoten.L’abbiamo attraversata a piedi, le mani sprofondare nelle tasche per tenerle al riparo dal vento gelido che da un paio di giorni ti segue persino nel sonno e al mattino alza sbuffi di neve e ghiaccio sulle strade bianche.
    Ci siamo rifugiati in un caffè (qui aprono quasi tutti alle 11) pieno di candele di tutti i colori sui tavoli e alle pareti, e ho mangiato una rotella alla cannella per cui potrei sviluppare una dipendenza in due giorni. Massimo tre. Il caffè costa tantissimo ovunque, ma puoi riempirti la tazza all’orlo e servirti di acqua fresca ogni volta che ti va.
    Siamo risaliti in macchina e siamo usciti dalle rotte della Lonely Planet, intorno a laghi ghiacciati dove l’acqua era azzurra e verdina, coperta di arabeschi. Abbiamo attraversato lunghi ponti e visto il mare portare alla terra blocchi di ghiaccio e neve, come nei documentari sul mare Artico.
    Ho l’impressione che sia sulle strade meno battute che si incontra l’atmosfera più autentica.
    Mi sembra di aver scorto lo spirito di queste terre nei villaggi deserti coperti di neve, poche case, un trattore, tutte le finestre accese. Nelle spiagge battute da un vento feroce, nelle stazioni di servizio che aprono per prime nella notte – un caffè lunghissimo, pochi avventori con gli occhi ancora presi dal sonno. Nelle mosse di un vecchio tutto intabarrato sulla soglia di casa, passi cauti nella neve, la luna un lampione.
    Nelle piccole barche di pescatori che ballano al ritmo dell’onda insonne, nelle pale appoggiate vicino alle porte. Nella stella di Natale ancora appesa vicino a una chiesa, nelle orme di chi per primo ha pestato l’ultima neve.

    7 gennaio 2023
    Ieri sera, verso le undici, siamo usciti a fare due passi. Siamo in mezzo al nulla, qui: ci sentiamo a casa. Rientrando, Eliandro e io ci siamo sdraiati nella neve ammucchiata in cortile, abbiamo lasciato le sagome dei nostri corpi.
    Questa mattina siamo partiti in auto senza meta. Con una direzione vaga, e nient’altro. Dall’alto, nel nord di Vestvagoy, ho visto un villaggio che mi ha suscitato qualcosa. Ci siamo fermati poco distante, sono scesa dalla macchina e mi sono seduta nella neve. Un vecchio fienile con il tetto scolorito, un’imballatrice, uno steccato addobbato di lucine. È ancora Natale. È ancora avvento, anche se è passata persino l’Epifania.
    Tutto il paese, visto da lì, dalla riva di un lago ghiacciato, pareva una bestia addormentata e sognante, vegliato dalla luna – la luna piena del segno del cancro.
    i può avere nostalgia di un posto che non conosciamo?
    Delle vite che non abbiamo vissuto?
    (Pare che i tedeschi la chiamino Fernweh. Che loro abbiano una parola per dirlo mi fa sentire meno incompresa).
    Ho camminato sola sulla spiaggia bianca di Haukland Beach, dove la terra si infila sotto l’acqua come un tappeto e il vento alza una polvere di ghiaccio e farina. Siamo scesi tutti e quattro nella spiaggia vicina a fare foto buffe e video di acrobazie, congelandoci a turno le mani.
    Abbiamo mangiato i nostri panini al piccolo porto di Ballstad, case colorate e decorate con grandi murales di azzurri paesaggi marini e volpi acciambellate. Ho bevuto un chai latte a Leknes, in quello che ormai è il nostro solito bar.Mentre i bambini e Federico giocano a Pinnacola, penso al paese misterioso rimasto senza nome, all’erba secca che sbucava qua e là, e penso che domani c’è da preparare la borsa e c’e un traghetto da prendere – prima tappa del ritorno.Penso che il vento, questa mattina, aveva già cancellato le impronte dei nostri corpi nella neve. Il paesaggio nuovamente intatto, come tutte le cose che abbiamo solo immaginato.
    “Seminata l’intera risaia
    ora di andare
    il salice resta”.
    Basho

    8 gennaio 2023
    “Un transatlantico di carta ti regalerò
    E un aeroplano a vela
    Ed un pilota con gli occhiali lo piloterà
    Da questo a un altro cielo
    E un canarino canterino addomesticherò
    Per le giornate scure
    Di quando il mare e il cielo dicono di no
    E non si può viaggiare”
    Abbiamo lasciato le Lofoten che cadeva una neve come chicchi di riso (ci sarebbe da scrivere un trattato, qui, sui tipi di neve. Ci sarebbe da imparare le tante espressioni degli eschimesi per dirla).
    Abbiamo temuto che il traghetto non partisse, con quel mare grosso e il vento. Invece è stato più puntuale che all’andata. Siamo rimasti sul ponte a guardare le montagne appiattirsi nel buio, finché non è rimasta che una labile scia di luci lontane. Poi mi sono inchiodata al sedile, tipo stoccafisso, a prendermi gli schiaffi dell’onda, attenta a non fare troppi movimenti per non patire come all’andata. Nel dormiveglia ripensavo a Basho, allo spirito del viaggio di cui si dice vittima. Me lo immagino, lo spiritello dispettoso, o meglio, lo riconosco: quando ti si attacca al calcagno e un po’ ti frena un po’ ti spinge. So anche io quanto può essere tenace, se ci si mette.
    Siamo sbarcati a Bodo nel tardo pomeriggio. C’è meno neve di una dozzina di giorni fa e il nostro albergo si affaccia sul mare. Non fa nemmeno più così freddo: sarà che arriviamo dal Nord.
    Domani si torna. Ci portiamo a casa una conchiglia, un riccio di mare, un quaderno nuovo con le casette rosse sulla copertina. Per parlare delle cose che si toccano.
    Mi affaccio alla finestra. Mi viene in mente L’areoplano a vela di GianMaria Testa – parte della colonna sonora del viaggio. Mi viene in mente quella sua incredibile dichiarazione d’amore. Perché ci vuole un transatlantico per attraversare il mare. Ma anche un canarino canterino che ti tenga allegro, tra una partenza e l’altra, quando resti al porto.

    Alcune delle cose (oltre a quelle note) per cui -secondo me- vale la pena mettere in calendario un viaggio a Vesteralen e Lofoten in inverno:

    • gli sbuffi di neve e aria ghiacciata sulla strada, come mulinelli-le bolle (un tipo di pane speziato e col cioccolato)
    • i mille tipi di neve: quella in cui sprofondare, quella su cui pattini, quella che si sfarina, quella che il vento porta in giro, quella che scende come chicchi di riso, quella che scende a foglie, le distese che riflettono la luna…
    • bagni pubblici caldi puliti e profumati di buono (quasi tutti)
    • i sacchetti di merluzzo essiccato come snack
    • fermarsi ogni pochi passi a farsi rapire dal paesaggio
    • il traghetto gratis
    • il cappuccino al caramello salato
    • le case con le finestre senza tende, per sbirciare dentro
    • le montagne specchiate nel mare
    • i piccoli camposanto a cielo aperto, con le lapidi semisommerse dalla neve
    • i jingle alla radio-scorrazzare in auto a velocità di crociera sulla E10 e perdersi di tanto in tanto su strade secondarie che sempre portano al mare
    • gli incontri ravvicinati con alci e aquile di mare
    • le decorazioni di Natale e tutte le luci che, nella lunga notte polare, fanno somigliare le case ad accoglienti barche in mezzo al nulla
    • le stazioni di servizio
    • la cortesia e la riservata accoglienza delle persone
    • la luce del Nord, che di continuo trasforma il mondo.

    (La ciliegina sulla torta sono compagni di viaggio adattabili e avventurosi… ma quelli devi portarteli da casa;)

    “Esistono molti modi di vedere il mondo e il nostro punto di vista probabilmente definisce chi siamo davvero.”
    Da “La tua assenza è tenebra” di Jon Kalman Stefansson, l’altro libro che mi ha tenuto compagnia durante il viaggio.
    Grazie a chi ha fatto un pezzo di strada insieme a noi.



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  • Facciamoci trovare pronti (Istanti rubati a #dicembre2020)

    On: 12 Gennaio 2021
    In: la mia vita e io, quando la montagna era nostra, viaggi
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    31 dicembre
    Ieri sera siamo andati a fare un giro in auto, di paese in paese, per vedere le luminarie. C’era una luna tonda e luminosa che si sarebbe potuto girare a fari spenti .Le strade erano lucide e deserte, fatta eccezione per una volpe e una nutria solitarie. Le decorazioni facevano capolino nei cortili, se ne stavano appese ai balconi, aggrappate ai muri. Poi, attraverso le finestre accese, ne ho intraviste altre private, più intime e segrete. Una candela, il lumino in cima alla capanna di un presepe. Mi è venuto in mente che, dopo che se ne è andata la mia mamma, per anni non ho fatto alberi, né appeso luci. Lei era l’anima del Natale, e adesso che non c’era più, non avevo nessuna voglia di festeggiare. Finché, un dicembre, non ho tirato fuori il mio piccolo abete, qualche pallina, un filo lucente. Non so perché, semplicemente era arrivato il momento di farlo. Come un seme che a un certo punto germogli. È stato faticoso, e liberatorio.Mi sono chiesta quanti alberi altrettanto faticosi ci fossero dietro quelle finestre, dentro quelle case e dentro tutte le case. Credo molti. Faticosamente in piedi, carichi di stelle e fiocchi di neve. Ho immaginato il gesto: una mano che pettina gli aghi sui rami e appende qualcosa. Accende una luce che forse non verrà vista da nessuno, o forse da un passante, in una notte come tante.Questo spero per il nuovo anno, per noi tutti: il desiderio e la forza di accendere luci.Il desiderio e la forza.Auguri!

    24 dicembre
    Qui, il fantasma dei Natali passati è dappertutto. È nelle slittate che mi ricordano quelle con mamma la notte della Vigilia.È nella sensazione di Ossigeno che mi investe quando a sera esco sulle strade buie, gelide sotto le stelle, e in quella di accogliente calore che mi fa formicolare le dita dei piedi intirizziti quando torno in una stanza scaldata dalla fiamma viva della stufa. Nei sensi intorpiditi dal tepore e poi acuito dal freddo fuori, nei vividi sogni a occhi aperti.È nei profili scheletrici degli alberi che fan sembrare i monti in lontananza enormi e bonari animali dal pelo ispido.È nel cielo basso, gonfio, così vicino alla terra, così vicino. È negli odori della cucina, nelle coperte spesse, nei libri seminati in giro, nei rari incontri sulle strade desolate. Il fantasma dei Natali passati mi porta in giro per la Valle, mi solletica fin quasi alle lacrime. Mi mette di fronte ricordi che pensavo d’aver perso – e son tutti qui, impettiti, i piedi nella neve, i profili di fumo.Mi raccontano vecchie storie, mi confortano alla loro maniera: promettono che torneranno – che non smetteranno di tornare. I miei auguri, quest’anno: facciamo pace coi nostri fantasmi, diamogli una possibilità. Se dobbiamo frequentarli, tanto vale farsi buona compagnia. Conviene a tutti, no? Felice Vigilia a tutti!

    6 dicembre
    Questo 2020 mi sembra se lo sia inghiottito la neve.Guardo indietro: una distesa bianca, uniforme, con pochi punti a cui appigliare il ricordo. Mi sembra ci sia stato tolto qualcosa -incontrare, abbracciare, viaggiare… le cose che sappiamo, certo. Ma non solo quelle. Non è mai tanto quello che non si è potuto fare, ma una mancanza di prospettiva. Come se la paura, i divieti, le inibizioni riducessero il mondo a una dimensione sola. A una impossibilità di espandersi, a un rattrappirsi delle facoltà di immaginare. Di desiderare. Sono quelle, mi dico, allora, che bisogna pungolare. Qualche minuto al giorno alleniamo le nostre fantasie come si allena un muscolo – una giornata con qualcuno, una terrazza sul mare, un concerto, un volo da prendere, un libro da scrivere, un nuovo sentiero, caffè e giornale al tavolino di un bar, nel via vai generale. Quel viaggio là. Cinque minuti al giorno: chiudiamo gli occhi, scaviamo a fondo. Troviamo la terza dimensione e forse persino la quarta: coltiviamoci. Verrà il tempo di bucare il terreno, dopo tutto questo gelo. Facciamoci trovare pronti.

    5 dicembre
    Somiglia il mio amore a una legnaia tenuta bene. Somiglia alla fatica di andare per boschi a tagliare ceppi, alla forza che serve per portarli a casa. Ma sempre pensando al calore che ti avvolgerà quando ogni notte te ne starai accanto al fuoco, a guardare la neve cadere.

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  • Viaggio in Georgia (Istanti rubati a #febbraio2020)

    On: 23 Marzo 2020
    In: istanti rubati, viaggi
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    22 febbraio
    Quando ho trovato un’offerta di volo per Tbilisi e ho deciso di approfittarne, senza quasi nemmeno saperla posizionare sulla carta geografica, mai avrei pensato di trovare tutta questa bellezza. È una città piena di mistero, angoli da scoprire, gente accogliente e buon cibo. Se vi capita, fateci un pensiero.

    23 febbraio
    Affittato un fuoristrada, cantato viaggiando, visitato un’antica città scavata nella roccia, attraversato paesi fantasma, perso la rotta e ritrovata, assaggiato dei dolci che sembrano candele ripiene di frutta, cercato di tenere a bada l’ansia nei posti rari in cui funziona il wifi, arrivati a un monastero (javi) all’incrocio di due fiumi a quell’ora del giorno che affetta il cuore a fettine sottili e che ti lascia lì a domandarti se faccia più male o più bene e mentre sei lì che ci pensi il momento è passato, ma tu lo sai che non è passato davvero – tu lo sai che in qualche modo, da qualche parte, rimane.

    24 febbraio
    Abbiamo attraversato distese di sabbia colorata, strade sterrate, panorami deserti a 360 gradi, un campo s-minato. Siamo arrivati al monastero di Lavria, grotte scavate nella pietra e qualche monaco immersi in un paesaggio lunare. Sul confine con l’Azerbaijan, apparentemente alla frontiera sul nulla, due militari ci hanno chiesto da dove veniamo e, sentita la risposta, ci hanno chiesto se davvero la situazione sia così complicata, in Italia. E chi lo sa, avrei voluto rispondere. E ho pensato ecco com’è, per una volta, non essere figli della zona sicura e protetta del mondo.

    27 febbraio
    Conta il viaggio, più che la destinazione.Ma soprattutto contano le persone con cui scegli di andare.(Grazie Georgia)

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  • Germania-Olanda: diario di viaggio (Istanti rubati a #novembre2019)

    On: 4 Dicembre 2019
    In: istanti rubati, viaggi
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    2 novembre
    Quando si viaggia può capitare di dormire poco – appunto perché si viaggia, chilometri e chilometri di autostrade buie. Può capitare di svegliarsi stanchi e di trovare tempo brutto – pioggia battente, di quella che dopo un po’, a furia di camminarci sotto, ti senti dentro un uovo di ovatta umida. Può succedere che uno dei tuoi compagni di viaggio si svegli con la nausea, per esempio, e cominci a vomitare. Ecco, queste cose possono capitare a chi viaggia e a noi, in circa quarantotto ore, sono capitate tutte.
    Eppure. Alzo gli occhi al cielo – bigio, tutto nuvole mobili e dense come galeoni fantasma – e faccio: oh.
    Ed è un oh di soddisfazione e meraviglia. Perché un altro cielo a questo serve. A ricordare che non è difficile trovare nuovi occhi.
    (E avere meravigliosi amici che ti aprono la loro casa certamente aiuta)


    4 novembre
    Il mio primo approccio con l’Olanda: Haarlem.
    In un pomeriggio di luce straordinariamente autunnale, abbiamo parcheggiato, dopo vari tentativi, lungo un canale – un canale, una barca ormeggiata coperta di piante (una giungla! hanno urlato i bambini, o forse ero io). Poco convinti, abbiamo chiesto indicazioni a un passante. Sbagliato, ci ha detto.
    Il parcheggio che abbiano scelto non andava bene per i non residenti.
    Ma non si è limitato a questo. Quanto restate?, ci ha chiesto.
    E senza domandare nulla in cambio ci ha offerto tre ore di parcheggio, pagando con la sua app.
    Sono felice che vogliate visitare la mia città, ha spiegato vedendo la nostra faccia stupita.
    Ecco cosa ci vuole a rendere il mondo un posto migliore: gesti di gentilezza praticati a casaccio.

    5 novembre
    Assaggiare. Il primo kebab, nella Oude Zijde di Amsterdam. Un’arringa marinata nella piazza centrale di Haarlem. Un masala chai, ripensando alle strade terrose di Pushkar. Provare. Qualche parola in una lingua sconosciuta. Due minuti in una sauna. Un trenino da cui scorrono prati e pecore e prati.
    Vorrei vi rimanesse questa curiosità, questa disposizione a osservare, a comprendere. La voglia di rosicchiare il mondo a morsi piccoli. Sapendo la fortuna di poterlo fare.
    E così sentire come è piccola la porzione di universo che abitiamo. Minuscola e insignificante. E così preziosa.

    6 novembre
    Rischio di innamorarmi di questo cielo acciaio caduto nei canali, dell’autunno aggrappato ai rami biondi, del sole che solo ogni tanto s’affaccia, per dire: Ci sono.
    Rischio d’innamorarmi di questa città – un colpo di fulmine. Penso ci fossi venuta da ragazza; quanto tempo sarei stata a spiarla da una finestra – le strade d’acqua nella luce giallastra – l’avrei spiata muoversi piano e respirare, da dietro i vetri appannati, bevendo caffè bollente, ascoltando un Bolero. Forse, aspettando qualcuno.
    Sarà per l’acqua che viene e che va, ma mi sembra il posto adatto, questo, per aspettare qualcuno.

    7 novembre
    Voi
    che siete il mio guscio di tartaruga, che siete il ritorno dopo la fuga.
    Voi, il boccone di fiato dopo la corsa, voi il mattino, voi la vite che apre la morsa.
    Voi che siete il balcone su cui s’affaccia il mio cuore, pieno di piante e di uccelli, e tutto è al contempo silenzio e rumore,
    voi che, quando piove, siete gli ombrelli.
    A voi dedico il viaggio, ovunque io vada,
    perché senza voi
    non avrei scampo nè pace – perchè senza voi: nè scarpe
    nè strada.

    12 novembre
    Quasi tremila chilometri in auto, amici che ci hanno accolti con un abbraccio e aperto le case, un miscuglio di lingue, pioggia ma poca, Würstel e kartoffen, posti mai visti prima, tisane alla liquirizia, verbi da imparare camminando per le città, il grigio e il giallo, pane e salame e mele, il trenino per Amsterdam, un po’ di preistoria e il Neolitico, dank e dag, le playlist di Greta, i diari di viaggio la sera, waffle e cofee to go, le nuotate in piscina (e per fortuna non nei canali), la luce d’autunno, il mare del Nord, i miei avventurosi e meravigliosi compagni di viaggio.
    Ecco: grazie.


    Non ha un seme d’immaginazione
    chi s’annoia
    del mondo
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  • Diario di una settimana di volontariato in Grecia (Istanti rubati a #ottobre2019)

    On: 21 Ottobre 2019
    In: istanti rubati, lettera, viaggi
    Views: 3085
     1

    9 ottobre
    Domattina parto per la Grecia.
    Insieme a Greta, senza sapere bene cosa ci aspetti. Lo capiremo meglio nella riunione di domani sera, a Salonicco, dove ci diranno cosa faremo esattamente nei giorni prossimi nei campi per rifugiati. Mi sono preparata, in queste settimane. Al mio solito modo: leggendo storie (Pietro Bartolo, La frontiera di Leogrande, il bellissimo Appunti per un Naufragio di Enia -grazie Enza– Nel mare ci sono i coccodrilli di Fabio Geda) e continuando nella mia personale mission impossible che è studiare inglese.
    Se ho paura? No.
    Se ho qualche ansia? Sì.
    Quella che mi prende a lasciare i bambini per una settimana -Siete tristi?, gli ho chiesto, Per adesso no, mi hanno risposto, sibillini. E pure l’ansia di arrivare all’aeroporto di Bergamo senza perdermi, in tempo per il volo, nonostante qualche scherzetto che mi ha fatto di recente l’auto. (Ma Enaiatollah Akbari aveva dieci anni -forse- quando è partito a piedi dall’Afghanistan per arrivare a Torino. Posso farcela, no?).
    Qualcuno mi ha detto che son scema. Qualcun altro ha sorriso e ha pensato: è scema. Alcuni amici mi hanno detto cose bellissime e immeritate.Qualcuno mi ha chiesto: Perché ci vai?
    E chi lo sa. Per combattere la frustrazione dell’impotenza, credo. Per somigliare alla persona che vorrei diventare. Per dare qualcosa del tanto che ho. Per fare qualcosa con mia sorella. Per quella frase bellissima di Mahatma Gandhi: sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.
    La nostra rivoluzione personale e minuscola comincerà domattina, quando sfrecceremmo alla volta di Orio al Serio, dopo aver chiuso il bagaglio contenente l’essenziale, portato i bambini a scuola, e preso un bel caffè. Anzi due.
    Noi si va. Che forse, alla fine, mica serve sapere perché.(Se potete, aiutateci con la raccolta fondi al link qui sotto:
    https://bit.ly/2nujqCV
    Non useremo il ricavato per noi, ma per dare una mano alle persone che incontreremo.
    Se volete farci un piccolo regalo, condividete.
    In ogni caso, augurateci buon viaggio)

    11 ottobre
    Nei pressi di uno dei numerosi campi per rifugiati si sta realizzando uno spazio per accogliere attività dedicate a donne e bambini.
    Oggi abbiamo contato e spostato innumeri scatoloni di pannolini, Greta ha fatto il cemento per costruire una panchina, io mi sono arrampicata sul ponteggio per dipingere il cancello di ingresso.
    Stavamo per andarcene quando è arrivato un iracheno, avrà avuto una buona sessantina d’anni, trascinandosi un piede ulcerato che non stava nella scarpa (ha raccontato di un bombardamento e un bel po’ di operazioni, dopo). Le ragazze con noi lo hanno medicato e gli girava la testa. Gli abbiamo offerto un mandarino. Ci ha detto grazie a ogni spicchio con un sorriso così grande che io, per oggi, sono a posto così.
    La nuova panchina è quasi pronta e il cancello è di un bel blu cielo.

    13 ottobre
    Questa mattina abbiamo perfezionato le nostre abilità in cantiere. Greta ha continuato con la calce per le panchine che io ho poi scartavetrato, prima di passare a dare il bianco.
    Nel pomeriggio abbiamo fatto ballare i bambini nel campo rifugiati. La maggior parte di loro, anche piccolissimi, erano lì da soli. A un certo punto sono arrivate due mamme con due bambini che avranno avuto un paio d’anni. Mostravano loro gli altri intenti a ballare, li incitavano a fare le mosse, li spingevano in mezzo al gruppo.
    – Go go dance.
    Insistevano, come se fosse importante che loro partecipassero a quell’ora di gioco. Come tutti i genitori, cercavano di fabbricare bei ricordi per i loro bambini. Un’ora di ballo in ciabatte sul cemento, in mezzo a tanti sconosciuti, in mezzo ai container che sono le loro case.
    Go go, dance.
    Io, nel frattempo, ho imparato le mosse per ballare Mister Policeman. Me le hanno insegnate i bambini.

    14 ottobre
    Anche in un posto come un campo profughi si può piantare un rosmarino. Dipingere un muro di blu, fabbricare una panchina dove domani, forse, verrà qualcuno da molto molto lontano per riposare un momento.
    Anche qui si può riempire un foglio di colore, appendere un disegno al muro del container chiamato casa, per renderlo più bello.
    A volte sono cose davvero piccolissime a rendere il resto sopportabile. O persino un po’ più bello.

    15 ottobre
    Questo pomeriggio abbiamo distribuito pannolini.
    Non è semplice come sembra. Bisogna aver fatto prima un censimento dei bambini nel campo, conoscere le loro età per non sbagliare le taglie. Partire con una carriola stracarica, spingerla in salita. Bussare alle porte dei container.
    – For babies.
    Molti ti ringraziano con la mano sul cuore. Altri aprono la porta quel tanto che basta per lasciarti infilare il pacco di pannolini. Sorridono, o ci provano. Thank you. I ragazzini ti corrono appresso, vogliono salire sulla carriola. Chiamano, chiedono. Hanno voglia di dire.
    Tornando verso l’appartamento, stanca, pensavo a quanto mi mancano i bambini, Federico, la mia famiglia. C’era un sole basso sulla strada polverosa, faceva caldo. Pensavo al divano su cui mi stravacco a casa, una serie tv, un libro vicino. Magari una birra.
    Pensavo alla bellezza di rincasare la sera e a come sembri una cosa facile, la normalità. Una cosa tanto facile da non farci più caso.

    16 ottobre
    Oggi sono stata con un’altra volontaria in un centro per minori non accompagnati e ho parlato a lungo con uno di loro. Viene dal Congo, è arrivato attraverso la Turchia per mare. Non ha nemmeno diciott’anni.
    Tra le tante cose mi ha detto che è importante, per loro, poter passare del tempo con qualcuno. È una cosa che ricorderemo, mi ha detto, guardandoci e guardandosi intorno. Ha aggiunto È importante perché così non continuiamo a pensare alle cose che ci fanno paura.
    Uscita da lì ho avuto voglia di piangere, ed era un pianto triste ma anche bello, credo, in qualche modo che adesso non saprei spiegare.

    21 ottobre
    Chissà chi lo ha detto: nella vita contano i giorni diversi. Quelli che si fanno ricordare, che escono dalla conta monotona della routine.
    Di certo i giorni passati in Grecia appartengono a questa categoria. Me ne sono portata a casa di cose, un bel po’. L’energia contagiosa e coraggiosa degli altri volontari, ad esempio. Ragazzi e (soprattutto) ragazze giovani e già con le idee chiare, la mente aperta e libera, il genere di persone che fa ritrovare fiducia nel futuro dell’umanità. Coordinatori preparati, solidi; consapevoli che senza la loro presenza costante e continuativa in quei luoghi, nulla di quello che viene fatto sarebbe possibile – una vita spesa per la causa.
    Mi sono portata a casa la luce di certi tramonti rossastri sul campo, dove centinaia di persone vivono dentro le tende e i container – tutta la fatica, il dolore, e quella luce bellissima; la stanchezza buona della sera, di quanto sai di aver fatto quel che è nelle tue possibilità. Mi sono portata a casa il sorriso sdentato di Mobina, il caschetto sbarazzino di Alisha, la dolcezza quieta di Mussummè, l’energia strabordante di Fatima, lo sguardo attento e incoraggiante di Josef -lui che incoraggiava me- e quell’uomo con un piede infetto, i tanti grazie che ci ha detto, il modo in cui li ha detti.
    Mi sono portata a casa soprattutto immagini.
    Due ragazze che camminano sulla strada accanto al campo riprendendosi con il telefonino mentre cantano una canzone lenta con una voce incredibile – incredibile, davvero. Le parole di chi mi spiega: mandano un video ai genitori per rassicurarli. Per mostrargli che stanno bene. Che non se la cavano poi male, tutto sommato.
    E un’altra: la bambina che domenica scorsa, dentro il campo, indossava un tutù. Resterà nella mia mente per un bel pezzo, mi sa – sarà la mia bambina con il cappottino rosso in “Schindler’s List”. Non si trattava di un tutù sgualcito o raffazzonato, ma di un abitino di veli che pareva conservato con cura, pieno di paillettes luccicanti. Un tutù indossato per una festa o un saggio di danza. Chissà dove lo ha preso, mi sono chiesta. Se se lo sia portato da casa attraverso un viaggio indicibile, se sia arrivato tra gli abiti donati. Ho immaginato la madre che la aiuta a indossarlo, un braccio alla volta sotto le bretelline, per vederglielo sfoggiare su un polveroso battuto di cemento, tra ghiaia e sterpaglie, ballando sulle punte dei piedi al ritmo della musica che esce da una radiolina. Del resto, ho pensato, viene domenica anche in un campo rifugiati.
    Grazie, allora. A Greta per essere sempre la miglior compagna di viaggio. Alle associazioni che mi hanno permesso di fare questa esperienza (La Luna di Vasilika – Onlus e Quick Response Team – QRT) e grazie a chiunque di voi abbia donato denaro, condiviso i nostri post o anche solo ci abbia pensate con un sorriso di incoraggiamento.
    Sono stati giorni intensi e diversi. Di quel diverso che, davvero, allarga la vita.

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  • Qualche giorno in Norvegia (Istanti rubati a #maggio2019)

    On: 3 Giugno 2019
    In: istanti rubati, viaggi
    Views: 1626
     1

    Bergen, day 1
    Siamo arrivati in Norvegia il giorno della festa per l’Indipendenza. Fiumi di gente in costume e a Bergen fiumi di giovani stipati su barche ormeggiate al molo, la musica alta e balli, e birra. Mi hanno ricordato certe feste del Redentore a Venezia dei miei vent’anni, o giù di lì, pure con meno yatch e più sarde in saore. La stessa energia incontenibile, la stessa furia, come se un motore interno non ci permettesse la quiete ma avesse bisogno di bruciare, di mandar giù mondo a sorsi e bocconi.
    Intanto il sole tramontava sul mare, ma lento, lentissimo, non aveva nessuna voglia di lasciar fare al buio. 
    Qui la notte, in questa stagione, dura un pizzico.

    Bergen, day2
    Abbiamo preso un treno, un bus, una nave, due treni. Abbiamo attraversato foreste, mangiato mele e baguette, fotografato cascate ruggenti e troll, bevuto il caffè più caro della (mia) storia, ascoltato il suono di altre parlate, navigato fiordi.
    Davanti a me sul bus un tipo con la testa rasata e ovale come un pallone da rugby ha filmato ogni angolo di strada, come facesse un reportage. Ho pensato chissà, magari deve mostrarlo a qualcuno che ha lasciato a casa. Noi un video per i bambini lo abbiamo fatto sulla nave ed è venuto uno schifo, lo abbiamo rifatto due volte, alla fine ci veniva da ridere e basta. Avremmo dovuto fotografare un ragazzetto sul trattore accanto al papà e mandargli la foto con scritto Come voi, ma era lontano e non siamo stati veloci abbastanza.
    Restano fotogrammi nella memoria. In uno c’è un uomo davanti a una fattoria di legno rosso in mezzo a un prato enorme, in mezzo a niente, solo sulla soglia, il cielo bigio. Fuma e si guarda intorno come ci si guarda intorno alla stazione mentre si aspetta il treno.
    Lontano da qui i bambini stanno facendo il pieno di cartoni e cose buone dalla nonna, mentre fuori piove, e da un’altra parte ancora una delle mie amiche più care si sposa. Mi ha mandato foto commoventi e le ho guardate mentre la barca filava sopra l’acqua nerissima e pensavo alla bellezza inconsuete delle cose che mi sfilavano intorno, e ad altre lontane, e pensavo ai tanti modi in cui ci teniamo vicine le persone che amiamo.

    Bergen, day3
    La sera, verso le dieci o anche le undici, abbiamo passeggiato sulle rive boscose affacciate sul mare del nord, lungo l’insenatura da cui navi salpavano – una enorme, la scritta Lofoten a poppa, gente sul ponte a sbracciarsi dentro giacche pesanti – e la luce era qualcosa di vivo sul confine tra acqua e cielo. Aveva una forza ancestrale quel crepuscolo diffuso, un notte in cui il giorno vibra e resiste, una cosa che palpita, come il fuoco in Midsummer Eve Bonfire di Alesud, appeso al muro del Kode.
    Ho immaginato quando da metà giugno l’oscurità comincerà a crescere, notti fioche e brevi pomeriggi ingombri di nubi, ho immaginato come sarebbe allora prendere quella nave e andare a Nord, verso le Lofoten e oltre, rive brillanti di ghiaccio e neve oltre l’acqua antracite e oleosa.
    Camminare verso un niente pieno di mistero, e denso, dove la bussola straluna e impazzisce, dove la natura vince il braccio di ferro con l’uomo.
    Immaginare tutto questo da qui, dentro una sera che pare mattino e che – vorrei saperlo dire con parole più chiare – ha le sembianze della speranza.

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  • In viaggio bisogna scrivere poesie

    On: 18 Dicembre 2017
    In: quasi poesia, viaggi
    Views: 1819
     1

    ericeIn viaggio bisogna scrivere poesie.

    Raccogli le parole in strada,
    dietro lo spigolo bianco di un tramonto,
    sulla linea retta che fa del mare una sfumatura più intensa del cielo.

    Setaccia le parole
    tra i grani di luce nel tuo cappello,
    dividile dall’imbroglio delle nostalgie.
    Desumile dalle traiettorie degli uccelli migratori
    che s’assiepano sui fili della luce
    – mentre anche tu vai via.

    Districale dai nodi delle desinenze di novembre
    dall’affanno della sua luce cruda,
    delle ombre che si porta al collo
    come grani di una litania.

    Scova le parole sotto la ruota
    delle tue scarpe
    e spingile a dire
    quello che non vorrebbero.

    Tutto quello che non vorrebbero.

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  • Istanti rubati a #novembre2017 (viaggio in Sicilia in pillole)

    On: 11 Dicembre 2017
    In: istanti rubati, viaggi
    Views: 1871
     1

    Sicilia 2017Viaggio in Sicilia in pillole – una al giorno

    Giorno 1
    Palermo – Cefalù

    Arrivare a Cefalù dopo un viaggio rocambolesco il giusto, arrivarci mentre il giorno conicincia a virare verso sera, con le onde che sbuffano e s’arricciano sulla sabbia chiara.
    Parcheggiare la macchina distante dall’appartamento e carichi, molto carichi, camminare a fatica riflettendo sul fatto che si cerca di viaggiare leggeri, e invece. E invece.
    Fare l’abitudine in poco tempo a una luce nuova, che c’è solo qui, mi ha detto un’amica. E a quella brezza tiepida che solletica e scompiglia, quella brezza che sempre, mi sembra, è presagio di innamoramento.
    Se c’è una lezione di viaggio, oggi, è: viaggia leggero. Punta all’essenziale.

    Giorno 2
    Castelbuono – Petralia Soprana – Cefalù

    I pensieri di oggi sono solo per te.
    “Di certo c’è un posto dove la legna non si finisce e il fuoco non si spegne”

    Giorno 3
    Pollina – Zafferana Etnea

    “Dev’esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto dove non soffriremo
    e tutto sarà giusto”
    Siamo partiti dal mare e siamo arrivati alle pendici dell’Etna, attraversando paesaggi nella nebbia, partendo dall’estate e lambendo l’inverno con i suoi strascichi brulli e tornando all’autunno infiammato di giallo.
    Labile come le stagioni sento in questi giorni la vita e sempre sempre sempre l’antidoto mi sembra uno, banale eppure senza alternative: stringersi alle persone che amiamo.
    Strada dopo strada, stagione dopo stagione. Anche quando folate fredde mescolano nuvoloni in alto, anche quando il vento confonde gli occhi di sabbia cinerina: sii lava capace di regalare lapilli di luce nella notte.
    Onora la vita, la lezione di oggi.

    Giorno 4
    Etna – Aci Trezza

    Oggi abbiamo camminato dentro una nuvola su un cratere dell’Etna, c’era una pioggia sottile come un diffuso aerosol. Alla distanza di dieci passi le persone non erano persone ma sagome appena più scure della nebbia.
    Ho mangiato biscotti duri che quasi mi hanno rotto un dente, prima di arrivare a questo posto senza tempo che è Aci Trezza – tutto il suo tempo sta dentro le pagine di un libro.
    I bambini si sono travestiti da fantasma e scheletro e sono entrati in tutti i locali del paese -tutti!- racimolando un bottino niente male. Mi sembra che la morale somigli a questo: strappare un sorriso con quello che fa paura, riempire di caramelle le tasche di un fantasma.
    E dentro la nebbia, allungare la mano e trovare chi vuoi tu. A dieci passi da te: la persona che vuoi tu.

    Giorno 5
    Aci Trezza – Siracusa

    Ad Aci Trezza ci siamo fermati sul molo vicino a un pescatore, mentre nuvole scure inghiottivano tutto e raggi di sole le bucavano come fili a piombo, facendo brillare scampoli di mare.
    Stava per andar via, quel pescatore – la moglie lo aveva avvertito che sarebbe venuto a piovere e ormai la previsioni non sbagliano. Invece si è fermato per far vedere ai bambini come si pastura e come si tiene la canna. Perché, per quanto ho visto, in Sicilia i bambini sono il futuro di tutti, e non una grana di chi li ha fatti.
    Mi è venuto in mente quel detto – Se vuoi salvare un uomo non regalargli un pesce, ma insegnagli a pescare – mentre grosse gocce hanno cominciato a cadere e ci siamo salutati come vecchi amici, noi e il pescatore, prima di correre al riparo.

    Giorno 6
    Siracusa

    Non c’è trucco non c’è inganno.
    A Siracusa vicino al Duomo oggi c’era un prestigiatore. Le sue mosse abili hanno incantato i bambini (come poco dopo un topo natante in mezzo ai pesci).
    Se credete nella magia, la magia vi trova sempre, ha detto il mago.
    Ecco dove oggi ho trovato la mia: negli angoli di pietre crude e imbiondite dal sole, vestite di rampicanti e piante grasse. Nel profumo di pasta alla norma annaffiata di bianco della casa. Nelle scommesse di fronte a un gatto che fa l’agguato al piccione (il gatto ha perso). Negli strappi di cielo tra i vicoli asfittici, finalmente azzurro dopo le piogge dei giorni scorsi.
    E nella telefonata di una persona gentile che mi ha detto, con altre parole:
    storie.
    Le storie sono la magia.

    Giorno 7
    Siracusa – Noto – Marzamemi

    Il trucco più inviolabile è quello che indovini e non vedi
    Noto è una granita al gelso all’ombra di una piazzetta, è la tenerezza spigolosa delle pietre gialle contro il blu del soffitto.
    Noto è un incontro -dopo anni- con un’amica. Nel tempo di mezzo, abbiamo fatto bambini e momentaneamente sospeso le gite senza altri passi a cui badare, senza mani piccole da tenere tra le mani. Ma restano i viaggi di allora, affidati alla geografia contraffatta e inalterabile della memoria.
    Dopo, un cielo improbabile su una distesa di ulivi e agrumeti, e ancora il mare. Il mare al tramonto, il più struggente dei mari su tutte le mappe.
    E lo spazio e il tempo non sono altro che un trucco -il più abusato e impenetrabile- da prestigiatore.

    Giorno 8
    Marzamemi – Modica

    Lasciati andare.
    Abbiamo lasciato Marzamemi che è il verso di una poesia che ho dimenticato, abbiamo attraversato una campagna di muretti bassi, fenicotteri, piante grasse e blu dove arrivano gli occhi.
    Ci ha accolti Modica con la fatica delle sue salite e gli scorci che tra due muri svelano universi di pietra.
    A metà di questo viaggio, ho trovato il mio mantra: Niente è perfetto e nulla è insuperabile.
    Lasciati andare!

    Giorno 9
    Modica – Ragusa – Realmonte

    Dalla Modica di Quasimodo all’Agrigentino di Pirandello, sostando tra le strade bianche di Ragusa, ascoltando Nirvana e Cure e leggendo -sui sedili dietro- Geronimo “Estinto”, sempre accompagnati da stormi multiformi di uccelli migratori.
    Ed è subito sera
    (Ma domani è un altro giorno)

    Giorno 10
    Realmonte – Scala dei Turchi e Valle dei Templi

    La piazza sul mare
    La Scala dei Turchi e la Valle dei Templi, prima col sole e poi con la pioggia – che palle la pioggia, correre e ripararsi sotto un ulivo, abbarbicati al tronco – ma dopo!
    La luce nuda spalancata di fronte.
    E tornare in un paese apparentemente anonimo ma poi dalla piazza centrale c’è una vista, una vista che ti ricorda qualcosa che hai perso.
    Qualcosa che avevi e che hai perso.
    E chiedi ai passanti -che non passano in verità ma se ne stanno assiepati a parlare- gli chiedi Per favore, una panetteria. E loro non ti dicono dov’è, si incamminano insieme a te.
    Non ho fretta, ti dicono. (Ecco cos’era che avevi e che hai perso).

    Giorno 11
    Realmonte – Marzara – Marsala
    Oggi non mi servono altre parole che queste. Parole che, come dice un’amica, hanno il potere di straziare il cuore.

    Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano di argille azzurre sul mare africano.
    Luigi Pirandello

    Giorno 12
    Marsala – Saline di Trapani – Castellamare – Scopello Visicari

    (Poi siamo arrivati in un posto incredibile…) Velocità di crociera su una strada non proprio scorrevole, la campagna che si srotola intorno coi suoi gialli, le viti e i pennacchi, nuvole bianche e panciute come dirigibili erranti.
    I bambini sui sedili dietro chiacchierano senza litigare, il sole batte sul mio finestrino e mi scalda mezza faccia. Stormi di uccelli si aprono a ventaglio laggiù. Tu guidi, io scrivo, l’autoradio manda una musica bella.
    Andiamo. Senza sapere precisamente dove.
    La semplicità del bene.

    Giorno 13
    Scopello Visicari- Riserva dello Zingaro – Erice

    Questa mattina era estate.
    Un’estate regalata in un giorno di novembre in cui era prevista pioggia.
    Abbiamo fatto una decina di chilometri tra rocce e mare, tenendoci per mano di fronte ai dirupi, dove la staccionata non c’era.
    Oggi pomeriggio al castello di Erice era autunno inoltrato. Con il vento che alza mulinelli di foglie nella luce interrotta dalla sera. Un vento che ulula, lucida gli occhi e che quasi spaventa. Pure me, che il vento lo amo moltissimo.
    Così ci siamo stretti un po’, per non volare via.
    È sempre un tenersi vicini, quindi.
    Stagione dopo stagione.

    Giorno 14
    Scopello Visicari – San Vito Lo Capo

    Incontri.
    Questa mattina ho fatto una passeggiata solitaria e mi ha accompagnata un cane randagio. Bianco con le macchie marroni e gli occhi un po’ tristi. (Ma forse tutti i cani hanno gli occhi un po’ tristi).
    È venuto a prendermi davanti alla porta di casa e mi ci ha riaccompgnata. Preciso come un fidanzato ai primi appuntamenti. Mi camminava davanti, faceva finta di disinteressarsi a me annusando in giro, e intanto mi aspettava. Come un innamorato troppo timido per dichiararsi.
    A un certo punto i cani erano due e mi hanno scortata girandomi intorno e frugando l’odore dei miei passi.
    Avevo letto cose di spiriti guida, di animali che sanno qualcosa di noi. Ricordo poco.
    Non importa. Quello che importa è che da questo viaggio mi riporto a casa il ricordo anche di lui.
    Del mio amico cane.

    Giorno 15
    Scopello Visicari – Palermo

    Bello partire per ritornare.
    Bello tornare, ma ripartirei.
    Un pezzo di Sicilia che ci terremo nel cuore -insieme a molto, molto altro- è  l’ultima casa che abbiamo abitato prima di tornare. Sospesa tra rocce e mare, circondata da pini, olivi, fichi di india e animali gentili. Una baita di montagna dove arriva l’odore di salmastro e un sentore di vento africano.
    Il penultimo regalo di Sicilia.
    L’ultimo regalo è stato, come al ritorno da ogni viaggio che si rispetti, la dolcezza un po’ malinconica e struggente di tornare a casa. Alla stufa accesa nella nebbia di novembre, vicino a cui sedersi e pensare: è stato bello.
    Altrochè, se è stato bello.

    In numeri

    4 viaggiatori, 1850 chilometri percorsi, 14 giorni di viaggio, 4 pieni dell’auto, 9 diverse sistemazioni notturne, 1 cambio dell’ora, svariatissimi colpi di tosse, molti incontri, un discreto mal di schiena, 3 libri e una guida, 6 bagagli, 1 crema viso e 1 ciabatta perse.

    Sicilia 2017Sicilia 2017Sicilia 2017Sicilia 2017Sicilia 2017Sicilia 2017Sicilia 2017Sicilia 2017Sicilia 2017

     

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  • Istanti rubati a #luglio2017 (Di cosa abbiamo bisogno)

    On: 2 Agosto 2017
    In: istanti rubati, la mia vita e io, lettera, viaggi
    Views: 3401
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    Estoul, Il richiamo della forestaAbbiamo bisogno di selvatico, della strada sterrata che si inerpica fino alla radura, dove non arriva l’asfalto con la sua simmetria di strisce bianche; delle tracce lasciate di notte da una volpe che si è avvicinata al paese; del grido fischiante di un nibbio o di quello notturno della civetta. Abbiamo bisogno del telefono che non prende, dell’auto che fino a là non arriva, dell’odore di resina che sporca i vestiti dei bambini mentre s’arrampicano sugli alberi.

    Le ho sempre sapute queste cose e le ho ripensate sulle strade sopra Estoul, mentre con mia sorella e i bambini si andava al Festival della Montagna, una bellissima festa tra i boschi, dove il dress code prevedeva piedi scalzi o scarpe da trekking e k-way per la pioggia.

    Abbiamo bisogno di parole, quelle dentro e quelle fuori dai libri. Ma devono essere parole piene, concrete. Come spiega Paolo Cognetti, devono essere i nomi delle piante che crescono ad alta quota, i verbi esatti per raccontare un’arrampicata, i luoghi geografici che descrivono un cammino. Devono fare un suono preciso, avere un peso specifico.
    Un mondo giusto è fabbricato con parole esatte.

    Abbiamo bisogno di incontri. Non quelli distratti alla fermata dell’autobus, quelli fatti di fretta alla cassa del supermercato – tutto bene da voi, sentito oggi che caldo, che tempo, e ieri quella grandinata.
    No, incontri: nuovi o vecchi, questo non importa, importa che ci sia la voglia di dividere qualcosa, oltre alle frasi sul clima inclemente, su chi scende o non scende alla prossima fermata. Può essere passarsi una borraccia o consigli di lettura, ballare in un prato mentre un gruppo fa le prove del suono per il concerto della sera, immaginare un progetto nuovo, ambizioso e visionario, prestare le bolle di sapone a un bambino.
    Alzare la faccia insieme per sentire le prime gocce di pioggia in fronte.

    Abbiamo bisogno di passi. Non dall’ascensore alla porta dell’ufficio, o dalla camera al bagno. Bisogna pestare erba, farsi strada tra i rovi e le spighe, sentire sassi sotto le scarpe, arrivare in cima alla salita, il cuore in gola, i muscoli molli. Sentire la potenza di questo corpo che scordiamo d’avere, sentire piena la forza e l’immensa grazia d’avere gambe affidabili.
    Gambe e cuore che ci portino: cos’altro conta?

    Abbiamo bisogno di semplicità. Roba facile come pane con dentro qualcosa che dia gusto, come acqua di fonte o magari un buon vino. Cose così.
    Sentire la mano dei miei figli dentro la mia, una per parte, mentre andiamo.

    Che altro serve. Tempo. Solo questo: tempo senza appuntamenti se non con se stessi, con la voglia di sedersi in un prato, appoggiare la schiena ad un albero. E stare.

    Come scrive Thoreu abbiamo bisogno di inesplorato. Vorremmo arrivare ovunque, vedere tutto, oltrepassare ogni barriera o confine. Scavare nei recessi terrori del sottobosco per scoprire una colonia di formiche, giungere a nuoto all’ultima isola, arrivare alla vetta un gradino sotto il cielo. Vorremmo arrivare ovunque ma ci serve sapere che resta qualcosa di inarrivabile. Ne abbiamo bisogno.
    Qualcosa da pensare soltanto, con il cuore che ci brucia in petto durante la salita o che se ne sta quieto in fondo agli occhi mentre con la schiena appoggiata al tronco guardiamo laggiù.

    Dai boschi di Estoul mi sono innamorata, una volta ancora, dell’inesplorato – che resiste.

    “Sono penetrato in quei prati la mattina di molti primi giorni di primavera, saltando da una duna all’altra, da una radice di salice all’altra, quando i selvaggi fiumi della valle e i boschi erano bagnati da una luce così chiara e luminosa da svegliare i morti, se si fossero assopiti nella tomba come alcuni immaginano. Non serve prova maggiore dell’esistenza dell’immortalità.” Henry Davide Thoreau, Walden

     Estoul, Il richiamo della forestaEstoul, Il richiamo della forestaEstoul, Il richiamo della forestaEstoul, Il richiamo della forestaEstoul, Il richiamo della foresta

     

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  • Istanti rubati a #maggio2017 (Non sono i sogni che fai, ma come li fai)

    On: 5 Luglio 2017
    In: istanti rubati, lettera, viaggi
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    Howth, IrlandaCamminare insieme a qualcuno parlando dei propri progetti mi sembra un bel modo di rinvigorire i sogni. Una specie di cura ricostituente per le proprie ambizioni.
    Non so se vi sia capitato. Essere in un bel posto, possibilmente tranquillo, ancora meglio se mai esplorato prima. Avere scarpe comode e una buona compagnia, una bottiglietta d’acqua e qualche ora a disposizione.
    L’ultima volta mi è successo a fine maggio, quando con Federico ci siamo regalati qualche giorno a Dublino. Durante quel viaggio, abbiamo dedicato una mezza giornata a Howth -una gita nella gita- un silente borgo di pescatori a ridosso delle scogliere.

    Dopo un pranzo a base di Guinness e fish and chips abbiamo preso a camminare in salita, senza meta, verso il punto più alto di quella collina, sotto il sole caldo del primo pomeriggio. Sbirciavo dentro i cortili delle case e ogni tanto mi voltavo indietro a cercare con gli occhi il mare. Ci siamo trovati in una strada in mezzo alla campagna, profumata e scoscesa.
    Parlavamo del più e del meno, di quello che avremmo voluto vedere a Dublino, del posto dove cenare, e cosa faranno i bambini, adesso, chissà se sentono la nostra mancanza. Al prossimo pub, ci fermiamo per una birra.

    Cosa vorresti, adesso, per la tua vita? Ho chiesto a Federico, come faccio spesso.
    Lui ha sospirato, abituato alle mie stramberie e a queste domande. E ha preso a dire. Camminavamo tra l’erba, a quel punto, c’era un odore buono di abeti e fieno, e, mi sembra, un coro di uccelli. Sotto di noi si apriva la tavola del mare e la distesa spianata dei desideri sbrilluccicava d’azzurro. Li avevamo davanti, giusto a un passo, ma raggiungerli non era così importante, in quel momento.
    Almeno non era importante come quello che c’era: un posto nuovo da attraversare vicini, quel buon odore nell’aria, i bambini a casa al sicuro e tutta quella strada.

    Tutta quella strada prima di arrivare al mare, così bello. Così bello visto da lì.

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