Io -che molto raramente sono triste- quando sono triste divento insopportabile.
Me ne vado in giro spossatamente, trincerata dietro un no comment o, alla meglio, a un sorriso di circostanza. Perché non mi so rassegnare alla tristezza immotivata.
Quindi alle giornate che nascono storte si aggiunge la paranoia: cosa c’è che non mi va? Ripasso le ultime ore: avrò dormito troppo poco (ma quello capita all’incirca sempre), avrò visto un film senza lieto fine (ma quando mai ci arrivo alla fine di un film con sveglia alle sei?) il treno era in ritardo (diciamo pure che se mi intristissi per quello, la mia vita sarebbe peggio che in un girone infernale), e via di seguito.
Stiamo impastando il Didò, Lemuele e io, in un pomeriggio dopo l’asilo. Lo faccio chiacchierare a ruota libera. Lui scantona senza limiti, come tutti i bambini della sua età. Esce dal seminato, inventa, mi stupisce, canta, ridacchia, dice cose sceme per farmi ridere. Come tutte le volte che ci mettiamo a chiacchierare a tu per tu.
Io lo seguo: invento, improvviso. A un certo punto gli domando:
“Lemuele, da dove viene la felicità?”
“Dal baule. Sta lì e urla”
“E la tristezza?”
“Anche lei dal baule”
“E cosa fa?”
“La tristezza sgrida”
“E che mi dici dell’allegria?”
Risata. “L’allegria è dentro la bottiglia che gioca” (ehm, eppure non dovrebbe avermi mai vista su di giri dopo un paio di bicchieri di vino…).
Ci son giorni che mi si aggroviglia qualcosa, dentro. Che sento forte -più forte- qualcosa che stona, che stride.
Come quando vedo un uomo vestito di stracci che tenta di rubare in una mensa, forse una borsa, un portafogli, e arrivano due volanti di carabinieri.
Un uomo che, a vederlo, si direbbe possegga poco più che se stesso. Trasandato, sporco, malconcio, con la faccia segnata di un reduce di guerra.
Che parla male l’italiano. O forse parla male e basta.
Mi mancherà. Questa seconda meravigliosa maternità a casa coi miei bambini, a occuparmi di loro, a seguirli passo a passo, ad avere come priorità ogni loro piccolo traguardo. Mesi bellissimi, complicati, memorabili.
“Mamma Aza diceva sempre a mia madre che doveva parlare quando raccoglieva” dicevo a Safi mentre mi chinavo a scavare. “Che tutto, le creature, gli spiriti e gli animali vogliono solo che gli si parli. Vogliono che tu apra la bocca e dica grazie o ciao. Diceva che era come chiamare i tuoi simili.” (Jesmyn Ward, Giù nel cieco mondo)
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