Anche quest’anno i bambini hanno ricominciato l’asilo. Primo anno di materna per Eliandro, secondo per Lemuele. È vero, nessuno dei due deve fare l’inserimento perché Eliandro lo scorso anno ha frequentato la sezione Primavera: stesso istituto, stessi compagni, stessa atmosfera. Dunque, al primo giorno di scuola li accompagnerà il papà, questa volta.
Certo che però.
È pur sempre un primo giorno. Metti che piangano. Metti che vogliano la mamma.
Ma no, dai, sono degli ometti. E poi io sono appena tornata dalle ferie, devo andare in ufficio.
“Mamma, guarda cosa ho pottato dall’asilo”.
Eliandro mi indica una grossa borsa di carta, su cui campeggia un suo bel primo piano sorridente.
Dentro: disegni, lavoretti. Il frutto di questo primo anno di scuola. Prima della materna che verrà a settembre, prima di tutto il percorso che sta per cominciare.
Portare i bambini all’asilo: come si fa? Cioè, la teoria mi è chiara: li svegli bombardandoli di pizzichi e canzoncine che manco il juke-box di Fonzie, li lavi e li vesti mentre si dimenano come triglie appena pescate, li convinci con un sapiente dosaggio di minacce velate e promesse mirabolanti a fare colazione, li issi in auto e si va.
E fin qui.
Recite all’asilo, anno secondo. E naturalmente quest’anno sono state due. Primo a esibirsi è stato Eliandro, piccolo tra i piccoli con un buffo capello da cuoco in testa e due baffetti ricci tirabaci. Bello, lui.
Le maestre hanno avuto il tempo di presentare i cuccioli, raccontando che hanno preparato i dolcetti per la festa di Natale, ed ecco che il mio valoroso chef, accompagnato da alcuni colleghi, è scoppiato in lacrime e ha teso le braccine verso il pubblico. La mamma, dopo poco, non ha resistito alla tentazione di andargli incontro sorridente e…
L’ho svegliato all’alba – la sua alba, lui abituato a dormire anche fin dopo le nove – e l’ho visto stiracchiarsi abbracciato al cuscino, nascondere il musetto sotto la coperta e poi riemergere con quel faccino buffo, mezzo assonnato, mezzo divertito.
Gli ho fatto il solletico per farlo ridere e l’ho preso in braccio per portarlo in cucina a fare colazione, tutto arruffato e scalzo com’era. L’ho infilato nel seggiolone accanto a quello del fratello, stessi occhi ancora incollati dai sogni.
L’ultimo giorno di asilo sono andata a prendere Lemuele, che mi è corso incontro tenendo sotto braccio una bellissima borsa dei tesori. Insieme a sacchettino, copertina e cambi vari che riempivano il suo armadietto, ci siamo portati via questa sacca di tela, tutta dipinta con le sue manine, con dentro i lavoretti fatti durante l’anno.
Lemuele è andato in gita con l’asilo, sezione primavera.
Dove?
A casa propria.
Sì perché i suoi 17 compagnetti di classe, corredati di 3 maestre e qualche mamma al seguito, sono stati una giornata da noi a vedere i cavalli.
È stata una giornata faticosa e mi sono ricordata perché non ho scelto di fare la maestra d’asilo. A queste ammirevoli Wonder Women va tutta la mia infinita stima.
Ricordo le mie recite scolastiche natalizie. I miei genitori tra il commosso e il singhiozzante mentre io su un palco sovraffollato mi prodigavo in esibizioni di dubbio gusto, con abiti stile bomboniera evocanti figure angeliche e celesti e stonando clamorosamente con una voce più adatta a celebrare i gironi dei dannato. Con una buona dose di realismo mi domandavo che cosa spingesse i miei familiari a emozionarsi tanto, ed ero pronta a scoprirlo alla prima recita d’asilo di Lemuele la scorsa settimana (lo so, la recita di natale a fine gennaio parte già col piede sbagliato, ma tant’è).
Mi sentivo così maledettamente felice che per poco non mi misi a urlare, se proprio volete saperlo. Non so perché. Era solo che aveva un’aria così maledettamente carina, lei, là che girava intorno intorno, col suo soprabito blu eccetera eccetera. Dio, peccato che non c’eravate anche voi. (Il giovane Holden, J.D. Salinger)
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