C’è un attimo, dentro ai sogni che si fanno di notte, che una parte di te prende il sopravvento sul resto e decide il salto. Da un ponte, forse da una nuvola, a volte fuori dal letto o dentro un bacio.
Lí si apre una strada -e franano le altre. Lì ciò che sei si reinventa, quello che non scegli di essere muore.
C’era una notte fuori, piena di profumo, e una notte dentro, piena di domande.
Una fiaba: leggera, garbata, profonda.
Questo è “L’inverno dell’alveare” di Davis Bellucci. Un piccolo gioiello prezioso ben cesellato. Pieno di piccole chicche.
Per spiegarci meglio: da malata lettrice e grafomane quale sono, da sempre mi annoto brevi parti libri che mi colpiscono maggiormente, che mi fanno riflettere, che mi regalano fremiti di poesia. Le sottolineo a margine e poi le ricopio, nell’infinito file “citazioni”. Dico questo non per sottolineare il mio disagio mentale, ma per raccontare che da questo libro ho attinto una serie infinita di perle, riempiendo fogli di frasi rubate.
“Mamma Aza diceva sempre a mia madre che doveva parlare quando raccoglieva” dicevo a Safi mentre mi chinavo a scavare. “Che tutto, le creature, gli spiriti e gli animali vogliono solo che gli si parli. Vogliono che tu apra la bocca e dica grazie o ciao. Diceva che era come chiamare i tuoi simili.” (Jesmyn Ward, Giù nel cieco mondo)
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