Mi sveglio da un lungo sonno. Dopo mesi sdraiata in spiaggia, mi bucano la pelle per riassemblare le ossa. Riparano le più malandate, mi riverniciano la pancia. Sento solletico. Sul fianco scrivono, con la vernice blu, Futura. Martellano, piallano, tamponano. Ci mettono giorni, forse settimane.
Poi, una sensazione che credevo di aver dimenticato: l’acqua che solleva, mi culla, lascia strisce saporite di alghe e di sale. Galleggio e sorrido in uno scricchiolio di assi di legno.
Ma dura poco: subito sento passi calpestarmi la schiena. Persone. Uno, due, tre, dieci, undici, dodici, trenta, cinquanta, settanta. Perdo il conto. Sono uomini, donne, bambini. Scalpitano, si pestano, mi pestano, si stringono, urlano, si spintonano. Non ho mai portato tutte queste persone insieme: è uno scherzo.
Invece mi guidano lontano dalla spiaggia pietrosa d’Africa, a forza di strattoni sono in mare aperto con il mio carico umano: piedi, dita, capelli, bocche, ginocchia. La luce arriva dritta, e taglio l’acqua a prua con una mossa precisa. L’Equatore mi si disfa alle spalle, davanti la terra è un bisbiglio in un’altra lingua, più che all’approdo somiglia a una promessa.
Arriva la notte e la sento, la paura che mi riempie la pancia di silenzi. Ancor più quando il mare s’ingrossa, si gonfia e s’impenna: troppo grande lui, troppo piccola io. Le voci si fanno grida, dopo preghiere. Più forte di tutte, quella di un bambino coi piedi scalzi e sporchi e le mani bianche a forza di stringere mani di madre.
Poi il mare si mette tutto dentro un’onda sola, mi salta sulle spalle e non sento più niente. Mi trovo a pancia sotto e intorno galleggiano stracci. E piedi, dita, capelli, bocche, ginocchia.
Il bambino mani bianche è a pancia sotto anche lui.
Resta, a titolo di burla, la scritta in vernice blu a gambe in su: Futura.