Fine agosto, tempo di preparativi per una migrazione. Sono stata alcuni giorni a occhi in su, nel prato sul fianco della casa a Obra, mentre nuvole di rondini popolavano il cielo, animavano gli alberi frondosi ai margini della valle.
Se ne stavano vicine sui fili della luce, una fila che pareva arrivare ai monti, pizzicate lì come le mollette sui fili per stendere. Era tutto un frinire per aria, una frullio d’ali, un lungo saluto prima di andare.
“Dove vanno, mamma?”
“Vanno al caldo, a vedere il deserto, il mare. Vanno a vedere il mondo.”
Agosto è finito così, ma è cominciato maluccio. In mezzo ci sono stati giorni in salita, di quelli con il respiro corto di quando fai le scale dopo una malattia. Dopo, meglio. Il mio paese tra le montagne, con la mia famiglia e i miei bambini (il solo genere di cose a cui l’aggettivo possessivo si sposi benissimo). Il posto migliore in cui leccarsi le ferite, in cui riprendersi i tempi e gli spazi; il sapore della polenta e gnocchi di malga, l’odore di felci e foglie pestate, la fatica appagante di arrivare in fondo alla salita, di uscire dal bosco quando vien giorno, di ritrovare il passo e il fiato lasciati qui a ogni stagione, su questi sentieri stretti, tra questi sassi bianchi.
Le fiabe la sera lette sui libri, la colazione al mattino in balcone, il caffè, i biscotti pucciati nel primo sole.
E alla fine questo saluto dal cielo, questa tempesta di piume, questa baruffa in aria.
“Mamma, ma tornano?”
“Non lo so, se tornano. Ma se partono, da qualche parte arrivano.”
Io ci credo, che non ci sia partenza senza approdo.
Anche se non sappiamo dove, anche se non vediamo dove.
Read MoreE poi andremo via come fanno gli uccelli che dove vanno nessuno lo sa.
(…) L’estate è finita l’inverno è alle porte, la morte e la vita rimangono uguali.