
e stapparsi un’altra birra
Mi si scollano di dosso gli anni,
vecchi francobolli attaccati a saliva.
Mi cade sulle spalle l’anno che garrivo
sulle spalle di mio padre, allegra e dritta,
regina di portamento sulle strade sgarrupate di paese,
tra la piazza e il cortile.
Mi scivola sul petto il 1994,
anno del primo amore incoronato, in un giugno di sabbia tiepida
e sementi. E molle di ubriachezza e di qualche cosa che sembrava intero
ascoltavo le canzoni di Battisti, ballavo le canzoni degli Smiths.
Cantavo le canzoni alla chitarra senza accordi sulle dita, senza note
allo spartito, muovevo dottor martens rossi a braccio,
sul palchetto scheggiato e liso alle feste d’Unità.
Dalle tempie rotola una carezza di madre,
la raccolgo nell’incavo del collo e ci poggio la testa,
in riposo. Dondolo piano, da un piede all’altro,
cercando quella fermezza di granito,
quel basalto di tenerezza quieta che non ho trovato dopo,
dentro nessun abbraccio, dietro nessuna barricata.
(altro…)
Ho scoperchiato mondi, per venirti a cercare.
Ho disseminato profezie e incanti, ho distillato lacrime,
pianificato incontri col Destino.
Ho atteso notti sotto un glicine in fiamme,
ho covato silenzi più di quanto un uomo possa fare senza scordare la parola,
ho ingannato gli anni.
Il vento si struscia sul mare: è un gatto nero, giallo di sguardo, contro la mano che gli allunga il cibo.
Solo il vento sa fare il mestiere del vento alla sabbia: livella. Porta via tracce come non fossero state, cambia contorni al mondo.
Il vento liscia l’evidenza e la trasforma, tratta le dune al modo della memoria con i ricordi.
Il vento e il tempo stanno a libro paga dallo stesso padrone.
L’onda ha il rantolio del tuono, la potenza della mano aperta a schiaffo.
Batte lo scoglio come chi miete fa con il grano
e ti sa spaventare:
un crollo di pentole dentro la notte.
Se t’avvicini lascia sulla bocca il sale,
al modo dei pistacchi sgusciati tra i denti
e dei baci ai primi appuntamenti.
Con le parole che adesso sono dei tuoi figli, con i loro stessi stupori e l’aggrapparsi alla vita come fosse una cosa facile, liana da un ramo, una cosa che ti trovi impacchettata sotto l’albero a Natale.
Semplice. Come semplice è adesso averne scordato il sapore.
C’è stato un momento che mi sono fatta grande perché sei diventato padre.
Padre dei figli generati da un innesto delle nostre carni. Tu giardiniere capace di germinare piante, questa volta hai generato vita.
Tu, con me, abbiamo dato un futuro al mondo: il solo possibile, per noi.
Ma se sentirò la tua bocca
dirmi amore
scorderò vocali e consonanti
e conserverò
il bisbiglio tra le dita,
il soffio sulle ciglia,
il brivido alla base del collo.
E la e di E così sia.
Forse verranno giorni che sarà facile piantare un rosmarino, o un fiore, e sedergli a fianco per vederlo sbocciare.
Forse ci vorrà impegno a infilare le scarpe e a sopportare il silenzio di un pomeriggio spiato dall’angolo di una tenda tirata, o dalla panca solitaria vicino al muro scrostato di casa.
Forse mancherà il vociare intorno, quello che adesso ti stanca, la corsa dietro un treno che inciampa in tutte le stazioni, arrivare a sera stanchi, con borse gonfie e agende ingombranti.
Forse delle notti la malinconia ruggirà come il lupo da cui un tempo proteggevi i pensieri dei figli, facendo delle tue braccia un nido, delle parole un porto.
(altro…)
Le cose, vedile da dentro.
Troppo facile girarci intorno, guardarle da lontano,
sciorinare dettagli mandati a memoria
esibire nozioni che son ciarpame
che si spaccia per storia.
Se parli di albero,
sii la linfa che irrora il tronco,
dell’ammalato impara la ferita.
se parli di donna, sii il suo grembo
quando è semina di vita.
Non parlare di guerra come fosse cosa che sai,
nominando terre armi divise,
ragion di stato,
se una volta non sei stato un corpo
lasciato indietro
e poi dimenticato.