Un mattino di fine estate in Liguria, mentre eravamo a passeggio sul molo, è successo che Lemuele si sia messo a piangere vedendo un pesce, credo una spigola, morto sul bordo del passaggio.

Voleva ributtarlo in mare, ma quando gli abbiamo detto che non sarebbe bastato per farlo nuotare ancora, un pianto di rabbia gli è straripato negli occhi.
Erano i giorni della polemica per la foto del bambini siriano, annegato, pubblicata da Il Manifesto. Per qualche strana associazione di idee mi sono chiesta cosa succeda a certi uomini, che probabilmente da bambini avranno sentito lo stesso senso di impotenza di fronte a una bestiolina morta e che invece, da adulti, non vivono queste immagini -questa verità- con un senso di sconfitta.

Perché sconfitti lo siamo, come specie, per l’ennesima volta nella storia del mondo. Perché perdiamo tutti dentro questo guerra che ha frontiere di mare e di fili spinati. Una guerra non dichiarata, che si combatte in modo tanto impari da somigliare a un agguato: da una parte divise, dall’altra stracci.
È il conflitto più pericoloso, quello senza le regole del gioco, che riesce a essere più ingiusto tra tutti, ingiusti già per definizione.

Vorrei che i miei figli non facessero il callo al dolore degli altri, che non indurissero il cuore. A rischio di averlo sanguinante, certe volte, anche davanti a qualcosa a cui non possono porre rimedio. Ci sarà, prima o dopo, la volta che potranno ributtare in mare il pesce ancora vivo, e vederlo nuotare.

Non so cosa gli insegnerò e con quali risultati. Ma una cosa gliela ripeterò spesso: non fa merito, avere la fortuna d’esser nati nella parte comoda del mondo. Non è medaglia o coppa, ma obbligo di risarcire chi questa sorte non l’ha avuta.
Obbligo di tagliare reti e staccare ami per regalare, quando si può, un altro giro in mare.