Giochiamoci il Jolly: Blog di Fioly Bocca

  • Terza tappa: le motivazioni (La storia di una storia. In quattro tappe)

    On: 8 Giugno 2017
    In: il progetto, un luogo a cui tornare
    Views: 15218
     Like

    paesaggioRaccontavo qualche giorno fa di come è nato “Un luogo a cui tornare”, di come la storia abbia seguito un suo percorso. Per capire dove mi abbia portato, però, bisogna prima rispondere alla domanda da cui tutto ha origine: quando si scrive da cosa si parte? E perché?

    Qualcuno consiglia di partire da cose che si conoscono bene. Quello certo aiuta. Ma c’è dell’altro, almeno per quanto riguarda la mia esperienza: la spinta a scrivere mi viene da qualche cosa che mi turba, mi ossessiona. O, almeno, che mi incuriosisce al punto da costituire un piccolo tarlo. Magari non tanto da levarmi il sonno, ma abbastanza da infilarsi spesso nei pensieri, da scavare piccoli solchi in cui la mente inciampa.
    Insomma, tutto parte da una domanda, più o meno precisa, che si porta a corredo un corollario di questioni minime. Una domanda che non trova risposte perché, se le avessi, forse, non passerei tempo a scriverne e -scrivendo- a rifletterci su.

    In questo caso, la molla di tutto è stata: qual è, davvero, la nostra identità? In cosa ci riconosciamo precisamente?
    Viviamo così tante vite. E non parlo di reincarnazione. Ci sono momenti e situazioni così diverse, nell’arco di un’esistenza, che sembra difficile capire che cosa ci tenga insieme. Non vi succede? Di pensare ad esempio a un momento della vostra infanzia -un mattino preciso, c’era una luce così bella ed estiva che proprio non ne volevate sapere di andare a scuola. Oppure quella volta che al mare vostro padre vi ha portato al largo col gommone e vi si siete sentiti felici, ma così felici che tutto era al posto giusto.
    Dicevo, non vi succede si ripensare un momento esatto, successo così tanti anni fa che vi viene il dubbio di averlo vissuto davvero? È così vicino da vederne i dettagli, ma al tempo stesso appartiene a un periodo fumoso e indefinibile.
    Ecco, allora, cosa tiene insieme quel bambino che non voleva scendere dal gommone e la persona che siamo diventati oggi, e quella che saremo domani? Una questione di identità profonda, la possibilità di riconoscersi in qualcosa che ci caratterizza, che ci rende unici e differenti dal resto.

    E, da qui, uno sciame di altre questioni. Se oggi la nostra casa va a fuoco e domani non esiste più niente di quello che era la nostra vita fino a ora, in cosa si trasformiamo? Se non riusciamo ad orientarci più in quello che abbiamo intorno, in cosa ci identifichiamo?
    In un momento storico segnato da un flusso migratorio senza precedenti è impossibile, io credo, aprire un quotidiano e non farsi queste domande. Cosa resta di te quando lasci la famiglia, la casa, la tua vita?
    Ma anche: se ci troviamo a dover scegliere tra una menzogna che ci salva la reputazione e lascia la nostra vita in ordine e una verità che potrebbe stravolgerci l’esistenza cosa facciamo? E se scegliamo di mentire, dopo, cosa vediamo quando ci mettiamo di fronte allo specchio?
    E poi messere il Tempo, sempre lui: non mi rassegno all’idea che conosca una direzione sola.

    Scrive Joseph O’Connor: Che cosa sono gli anni? Finzioni. Macchie d’inchiostro sopra un calendario.

    I protagonisti di “Un luogo a cui tornare” – i due di cui parlavo all’inizio- sono molto diversi ma, ho scoperto, hanno questo in comunque: il bisogno di capire, ognuno a proprio modo, che cosa li tiene insieme. Che cosa li rende quello che sono. Non lo sapevo, quando ho cominciato a scrivere:  adesso vedo dove volevano portarmi.
    La prossima volta -ultima puntata, promesso- vi racconto dove sono arrivata: quello che si vede da là.

    Qui, la partenza e il percorso.
    Tracce di questa storia, qui: www.facebook.com/unluogoacuitornare

    Share
    Read More
  • Seconda tappa: il percorso (La storia di una storia. In quattro tappe)

    On: 31 Maggio 2017
    In: il progetto, un luogo a cui tornare
    Views: 7005
     1

    Dicevamo che tutto è cominciato da tre personaggi e una notte di pioggia.
    Per scrivere “Un luogo a cui tornare” sono partita da qui, da queste coordinate, da questi pochi segni che davano inizio alla mia traccia sul foglio bianco. Appena un abbozzo a matita. Accennato.

    Da lì, poi, non so quante volte ho sbagliato strada. Perché è così che succede: fai un pezzo, la vegetazione è troppo fitta, ti impantani, i sentieri si inabissano, non capisci più nulla. Ti accorgi che stai girando in tondo o ti trovi di fronte un muro, troppo liscio per essere scalato. E torni indietro. Alle volte bastano pochi passi, poco prima c’era un bivio che non avevi notato, basta imboccarlo.
    Alle volte, si tratta di cancellare giorni e forse settimane di marcia. Perfino mesi. Mi è successo più di una volta. Non dico che non sia penoso. È mortificante. Ti accorgi, o ti fanno notare, che ti sei perso. Allora senti male ai piedi, a tutte le giunture. Ti manca un po’ il fiato, adesso che ci pensi. Ti abbandona l’entusiasmo, ti piglia un soverchiante scoramento e hai solo voglia di gettare le scarpe da una parte e stenderti in un prato a guardare il cielo. E non pensarci più. Magari per qualche giorno è proprio quello che fai: ti sdrai sull’erba e resti fermo a guardare le nuvole, a guardare le stelle. A sgomberare la mente come adesso un vento potente fa con le nuvole che si sono addensate sopra la tua testa. Dici Basta, dici Chi me lo fa fare. Dici Non mi importa poi molto vedere cosa c’è alla fine della strada.

    Poi però. Riprendi in mano quella mappa tratteggiata a matita e pensi che non puoi lasciarla così. Fino a quel certo punto hai visto cose tanto belle -o almeno così ti sembra- che sarebbe un peccato non raccontarle. Andrebbe persa una certa radura sul limitare del bosco, dove al tramonto ombre in fila aspettano la notte. Si perderebbe quel crepuscolo sul lago che ti ha lasciata immobile a osservare l’albore del giorno, tra i riflessi sulla superficie azzurra e quasi ferma.
    Sarebbe un peccato. Così ti metti in piedi e riprendi la strada, qualche passo, scaldi fiato e muscoli. E ricominci. Non è sempre male sbagliare strada. Anzi. Succede che scopri angoli lussureggianti che non immaginavi nemmeno. Scopri parti di te, certe tue vedute del mondo.

    Per quanto possa sembrare strano, la scrittura influenza la vita. E viceversa (ma quello è più ovvio). Alle volte, qualcosa che succede nella tua quotidianità cambia il corso stesso della storia. Mi è capitato, mentre scrivevo questo libro. Una cosa per me molto importante, dolorosa. Ha deviato il tragitto e mi ha fatta restare molto più a lungo in un posto che credevo di attraversare in fretta, di sbirciare in lontananza, come un panorama visto dal finestrino di un treno. Invece no. Mi sono dovuta sedere lì, sulla riva di un certo fiume a guardare. A provare a capire perché, a sperare che passasse il male in fretta. A vedere se potevo imparare qualcosa da questo accadimento, visto che proprio non lo potevo evitare.

    Non voglio fare troppi misteri, solo provare a spiegare, prima di tutto a me stessa, come funziona mettersi di fronte a un foglio e provare a scovarci dentro un mondo tutto intero.
    La dannazione e la grazia di voler continuare la strada. La dannazione e la grazia.
    E alla fine, ecco. Sono arrivata là dove volevo e potevo. Dove mi hanno portata le gambe e il fiato che avevo a disposizione. Ho riguardato tutto da là e ho pensato che, comunque andrà da adesso in poi, per quel che mi riguarda ne è valsa la pena.
    Provo a raccontavi quello che ho visto all’arrivo. Presto, se vi va.

    L’inizio di questa storia, lo trovate qui
    La pagina dove aspettare insieme l’uscita del libro, qui: https://www.facebook.com/unluogoacuitornare

    Share
    Read More
  • Istanti rubati ad aprile2017 (Di piccole cose e stupori e cose che ho scritto)

    On: 11 Maggio 2017
    In: il progetto, istanti rubati, la mia vita e io
    Views: 2134
     1

    Monferrato, PiemonteLasciarsi sorprendere non è cosa da tutti, bisogna imparare.
    Aprile è specialista nel lasciarti indovinare il tempo, puntare gli occhi al cielo il mattino – oggi sarà sole o sarà pioggia?
    Mi sono lasciata sorprendere anche io, qualche volta, in questo aprile. Da un compleanno -il mio- che mi coglie ogni santo anno completamente impreparata, e sì che oramai un po’ di allenamento l’ho fatto. Ammesso poi che ci possa preparare ad avere un anno in più, a ricevere auguri senza commuoversi troppo, a fare (o meglio a non fare) bilanci.
    Mi sono lasciata sorprendere da una festa di compleanno molto speciale -non mia- festeggiata un martedì notte in un bosco allestito per l’occasione, con un furgoncino per distribuire birra fredda, zuppa di ceci e torta di nocciole e luci, e un bel falò, e palloncini colorati appesi ai rami degli alberi.
    Mi sono lasciata sorprendere da una covata di pulcini che abbiamo adottato per un po’, dalla trilogia di Kent Haruf attraverso le strade di Holt, da una pasquetta inaspettatamente soleggiata con gli amici, dalle trovate dei bambini, da una ricorrenza festeggiata in famiglia con un pranzo e poi una gita al lago – breve, ma bella, come le cose improvvisate in un giorno di primavera.

    E così a metà di quel pomeriggio di primavera montarono a cavallo e, come viaggiatori nel vasto mondo, Bobby in sella e Ike dietro, si allontanarono. (Kent Haruf, Canto della Pianura)

    kent haruf

    Mi sono lasciata sorprendere persino dalle tante ore che sono riuscita a passare davanti a una tastiera a battere e ribattere i soliti tasti. A limare, spostare, tagliare, aggiungere, modificare, definire, sostituire, mettermi le mani tra i capelli, alzarmi e guardar fuori -piove o non piove? Esce il sole?- accarezzare il gatto e aggiungere ceppi nella stufa in cucina, che il sole vabbè, ma in casa fa freddo. E poi ancora, da capo, gli stessi tasti, levare, sintetizzare, ricalibrare. La virgola lì non ci sta, proviamo col punto.
    Mi ha sorpreso sentirmi sbalzata indietro, agli anni dell’università, le notti prima degli esami, i sabati e le domeniche a vagare per casa in pigiama e a riempire la moka di caffè. Rispetto ad allora mancavano le sigarette a segnare le pause, gli amici spettinati e stravaccati sulla poltrona in camera mia con grossi libri aperti sulle ginocchia e matite per sottolineare.
    Mi ha sorpreso, in qualche modo, ogni frase che ho scritto e poi riscritto perché prima di farlo non sapevo precisamente nemmeno io cosa volessi raccontare. Oppure sì, ma soltanto confusamente. Soltanto approssimativamente. Adesso invece è quasi tutto lì, quello che volevo dire, che potevo dire. E ogni volta mi sorprende.

    Intanto siamo a maggio, si veleggia verso l’estate, nonostante le piogge insistenti in questa parte di mondo. Non scoraggiamoci, non certo per il meteo. Alleniamoci, invece, diventiamo campioni di stupimento.
    (Che dite, il sole: esce o non esce?)

    Il vento soffiava sui campi piatti, aperti e sabbiosi, sui campi di grano e sulle stoppie di granturco, sulle praterie dove scure mandrie di bovini pascolavano nella notte. Ai due lati della strada le fattorie si stagliavano alla debole luce azzurra dei lampioni nei cortili, case sparse e isolate nella campagna buia, e in lontananza, alla fine della strada, le luci di Holt non erano che un bagliore sul basso orizzonte. (Kent Haruf, Crepuscolo)

    Monferrato, PiemonteMonferrato, PiemonteMonferrato, Piemontepulcinosorellemyfamilymy familyla mia scrivaniaMonferrato, Piemonte
    Share
    Read More
Share
UA-31736997-1