Giochiamoci il Jolly: Blog di Fioly Bocca

  • Diario di una settimana di volontariato in Grecia (Istanti rubati a #ottobre2019)

    On: 21 Ottobre 2019
    In: istanti rubati, lettera, viaggi
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    9 ottobre
    Domattina parto per la Grecia.
    Insieme a Greta, senza sapere bene cosa ci aspetti. Lo capiremo meglio nella riunione di domani sera, a Salonicco, dove ci diranno cosa faremo esattamente nei giorni prossimi nei campi per rifugiati. Mi sono preparata, in queste settimane. Al mio solito modo: leggendo storie (Pietro Bartolo, La frontiera di Leogrande, il bellissimo Appunti per un Naufragio di Enia -grazie Enza– Nel mare ci sono i coccodrilli di Fabio Geda) e continuando nella mia personale mission impossible che è studiare inglese.
    Se ho paura? No.
    Se ho qualche ansia? Sì.
    Quella che mi prende a lasciare i bambini per una settimana -Siete tristi?, gli ho chiesto, Per adesso no, mi hanno risposto, sibillini. E pure l’ansia di arrivare all’aeroporto di Bergamo senza perdermi, in tempo per il volo, nonostante qualche scherzetto che mi ha fatto di recente l’auto. (Ma Enaiatollah Akbari aveva dieci anni -forse- quando è partito a piedi dall’Afghanistan per arrivare a Torino. Posso farcela, no?).
    Qualcuno mi ha detto che son scema. Qualcun altro ha sorriso e ha pensato: è scema. Alcuni amici mi hanno detto cose bellissime e immeritate.Qualcuno mi ha chiesto: Perché ci vai?
    E chi lo sa. Per combattere la frustrazione dell’impotenza, credo. Per somigliare alla persona che vorrei diventare. Per dare qualcosa del tanto che ho. Per fare qualcosa con mia sorella. Per quella frase bellissima di Mahatma Gandhi: sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.
    La nostra rivoluzione personale e minuscola comincerà domattina, quando sfrecceremmo alla volta di Orio al Serio, dopo aver chiuso il bagaglio contenente l’essenziale, portato i bambini a scuola, e preso un bel caffè. Anzi due.
    Noi si va. Che forse, alla fine, mica serve sapere perché.(Se potete, aiutateci con la raccolta fondi al link qui sotto:

    Non useremo il ricavato per noi, ma per dare una mano alle persone che incontreremo.
    Se volete farci un piccolo regalo, condividete.
    In ogni caso, augurateci buon viaggio)

    11 ottobre
    Nei pressi di uno dei numerosi campi per rifugiati si sta realizzando uno spazio per accogliere attività dedicate a donne e bambini.
    Oggi abbiamo contato e spostato innumeri scatoloni di pannolini, Greta ha fatto il cemento per costruire una panchina, io mi sono arrampicata sul ponteggio per dipingere il cancello di ingresso.
    Stavamo per andarcene quando è arrivato un iracheno, avrà avuto una buona sessantina d’anni, trascinandosi un piede ulcerato che non stava nella scarpa (ha raccontato di un bombardamento e un bel po’ di operazioni, dopo). Le ragazze con noi lo hanno medicato e gli girava la testa. Gli abbiamo offerto un mandarino. Ci ha detto grazie a ogni spicchio con un sorriso così grande che io, per oggi, sono a posto così.
    La nuova panchina è quasi pronta e il cancello è di un bel blu cielo.

    13 ottobre
    Questa mattina abbiamo perfezionato le nostre abilità in cantiere. Greta ha continuato con la calce per le panchine che io ho poi scartavetrato, prima di passare a dare il bianco.
    Nel pomeriggio abbiamo fatto ballare i bambini nel campo rifugiati. La maggior parte di loro, anche piccolissimi, erano lì da soli. A un certo punto sono arrivate due mamme con due bambini che avranno avuto un paio d’anni. Mostravano loro gli altri intenti a ballare, li incitavano a fare le mosse, li spingevano in mezzo al gruppo.
    – Go go dance.
    Insistevano, come se fosse importante che loro partecipassero a quell’ora di gioco. Come tutti i genitori, cercavano di fabbricare bei ricordi per i loro bambini. Un’ora di ballo in ciabatte sul cemento, in mezzo a tanti sconosciuti, in mezzo ai container che sono le loro case.
    Go go, dance.
    Io, nel frattempo, ho imparato le mosse per ballare Mister Policeman. Me le hanno insegnate i bambini.

    14 ottobre
    Anche in un posto come un campo profughi si può piantare un rosmarino. Dipingere un muro di blu, fabbricare una panchina dove domani, forse, verrà qualcuno da molto molto lontano per riposare un momento.
    Anche qui si può riempire un foglio di colore, appendere un disegno al muro del container chiamato casa, per renderlo più bello.
    A volte sono cose davvero piccolissime a rendere il resto sopportabile. O persino un po’ più bello.

    15 ottobre
    Questo pomeriggio abbiamo distribuito pannolini.
    Non è semplice come sembra. Bisogna aver fatto prima un censimento dei bambini nel campo, conoscere le loro età per non sbagliare le taglie. Partire con una carriola stracarica, spingerla in salita. Bussare alle porte dei container.
    – For babies.
    Molti ti ringraziano con la mano sul cuore. Altri aprono la porta quel tanto che basta per lasciarti infilare il pacco di pannolini. Sorridono, o ci provano. Thank you. I ragazzini ti corrono appresso, vogliono salire sulla carriola. Chiamano, chiedono. Hanno voglia di dire.
    Tornando verso l’appartamento, stanca, pensavo a quanto mi mancano i bambini, Federico, la mia famiglia. C’era un sole basso sulla strada polverosa, faceva caldo. Pensavo al divano su cui mi stravacco a casa, una serie tv, un libro vicino. Magari una birra.
    Pensavo alla bellezza di rincasare la sera e a come sembri una cosa facile, la normalità. Una cosa tanto facile da non farci più caso.

    16 ottobre
    Oggi sono stata con un’altra volontaria in un centro per minori non accompagnati e ho parlato a lungo con uno di loro. Viene dal Congo, è arrivato attraverso la Turchia per mare. Non ha nemmeno diciott’anni.
    Tra le tante cose mi ha detto che è importante, per loro, poter passare del tempo con qualcuno. È una cosa che ricorderemo, mi ha detto, guardandoci e guardandosi intorno. Ha aggiunto È importante perché così non continuiamo a pensare alle cose che ci fanno paura.
    Uscita da lì ho avuto voglia di piangere, ed era un pianto triste ma anche bello, credo, in qualche modo che adesso non saprei spiegare.

    21 ottobre
    Chissà chi lo ha detto: nella vita contano i giorni diversi. Quelli che si fanno ricordare, che escono dalla conta monotona della routine.
    Di certo i giorni passati in Grecia appartengono a questa categoria. Me ne sono portata a casa di cose, un bel po’. L’energia contagiosa e coraggiosa degli altri volontari, ad esempio. Ragazzi e (soprattutto) ragazze giovani e già con le idee chiare, la mente aperta e libera, il genere di persone che fa ritrovare fiducia nel futuro dell’umanità. Coordinatori preparati, solidi; consapevoli che senza la loro presenza costante e continuativa in quei luoghi, nulla di quello che viene fatto sarebbe possibile – una vita spesa per la causa.
    Mi sono portata a casa la luce di certi tramonti rossastri sul campo, dove centinaia di persone vivono dentro le tende e i container – tutta la fatica, il dolore, e quella luce bellissima; la stanchezza buona della sera, di quanto sai di aver fatto quel che è nelle tue possibilità. Mi sono portata a casa il sorriso sdentato di Mobina, il caschetto sbarazzino di Alisha, la dolcezza quieta di Mussummè, l’energia strabordante di Fatima, lo sguardo attento e incoraggiante di Josef -lui che incoraggiava me- e quell’uomo con un piede infetto, i tanti grazie che ci ha detto, il modo in cui li ha detti.
    Mi sono portata a casa soprattutto immagini.
    Due ragazze che camminano sulla strada accanto al campo riprendendosi con il telefonino mentre cantano una canzone lenta con una voce incredibile – incredibile, davvero. Le parole di chi mi spiega: mandano un video ai genitori per rassicurarli. Per mostrargli che stanno bene. Che non se la cavano poi male, tutto sommato.
    E un’altra: la bambina che domenica scorsa, dentro il campo, indossava un tutù. Resterà nella mia mente per un bel pezzo, mi sa – sarà la mia bambina con il cappottino rosso in “Schindler’s List”. Non si trattava di un tutù sgualcito o raffazzonato, ma di un abitino di veli che pareva conservato con cura, pieno di paillettes luccicanti. Un tutù indossato per una festa o un saggio di danza. Chissà dove lo ha preso, mi sono chiesta. Se se lo sia portato da casa attraverso un viaggio indicibile, se sia arrivato tra gli abiti donati. Ho immaginato la madre che la aiuta a indossarlo, un braccio alla volta sotto le bretelline, per vederglielo sfoggiare su un polveroso battuto di cemento, tra ghiaia e sterpaglie, ballando sulle punte dei piedi al ritmo della musica che esce da una radiolina. Del resto, ho pensato, viene domenica anche in un campo rifugiati.
    Grazie, allora. A Greta per essere sempre la miglior compagna di viaggio. Alle associazioni che mi hanno permesso di fare questa esperienza (La Luna di Vasilika – Onlus e Quick Response Team – QRT) e grazie a chiunque di voi abbia donato denaro, condiviso i nostri post o anche solo ci abbia pensate con un sorriso di incoraggiamento.
    Sono stati giorni intensi e diversi. Di quel diverso che, davvero, allarga la vita.

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  • Migranti

    On: 20 Luglio 2016
    In: lettera, sproloqui
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    opera di danila d'acciSe guardi da lontano vedi: una massa di persone.
    Può fare paura, una massa di persone. Tutte le braccia insieme diventano tentacoli.
    Vedi un muro fatto di schiene ed è un muro più impenetrabile di un presentimento balordo. Più respingente di un sospetto.
    Vedi una selva di gambe e in una selva ci si perde, in una selva si perdono le tracce dei passi – ti smarrisci in un intrico di gambe, in una semina di ossa.
    Tanti capelli sono groppo di liane, viluppo di alghe nel torbido del fondale.

    Ma se poi t’avvicini, se affini lo sguardo, la prospettiva si capovolge.
    Se tra tante mani ne puoi districare un paio, se punti lo sguardo sulle clavicole sporgenti, sul capo chinato. Se sai scorgere il neo sotto il mento, la cicatrice che racconta una storia –ed è una storia di perdizione dentro un’altra selva– se lo puoi fare, la paura sbiadisce.
    China il capo anche lei, indietreggia e ti lascia guardare.

    E allora –solo allora- in centro al mostro da milioni di teste incroci uno sguardo.
    Uno sguardo annacquato di donna.
    Uno sguardo affannato di uomo.
    Uno sguardo argilloso di vecchio.
    Uno sguardo d’edera e agrifoglio di bambino.
    E allora –solo allora- vedi lo sguardo della moglie, del fratello, del padre. Di tuo figlio.

    Solo allora –quando la paura ti lascia guardare- dimentichi il mostro da milioni di teste.
    E ti riconosci.

    (I bellissimi ritratti sono dell’artista Danila D’Acci – www.dispariepari.it)

    opera di danila d'acci

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  • Viaggio nella Grecia dei migranti: qualcosa di quello che mi sono portata a casa

    On: 27 Giugno 2016
    In: la mia vita e io
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    viaggio in GreciaIl volo di rientro mette la parola fine al fondo della missione. Ammesso che possa davvero finire un viaggio come questo, così breve ma pieno di cose, così veloce e surreale che alla fine ti domandi se sia accaduto davvero.

    Eravamo in venti a partire da Bologna, su un volo che fino all’ultimo ha rischiato di essere soppresso a causa dello sciopero. Siamo atterrati a Salonicco e con quattro auto ci siamo spostati sul confine tra Grecia e Macedonia, per consegnare quei 1200 chili di aiuti nei campi di rifugiati che si sono costituiti dopo lo sgombero di Idomeni.
    Non farò un’analisi socio-politica, non mi sento in grado; troppo confusa la situazione, troppo pochi i dati di cui ho visibilità, troppo parziale la mia comprensione di questo fenomeno di proporzioni mondiali che avvelena il nostro tempo.
    Proverò a dire quello che ho sentito, unica materia su cui mi sento preparata, almeno un po’. Cominciando dal rientro; perché, come mi avevano saggiamente preannunciato, è la parte più difficile.

    Io sono tornata con la paura che dopo un’esperienza come questa si gratti via un po’ del significato delle cose che vivi; se non sai gestire bene i sentimenti, c’è il rischio di levare lì dove dovresti aggiungere. Rischi di non rientrare con la consapevolezza della fortuna che ti è toccata come diritto di nascita, ma con la sensazione nauseante che se quella fortuna non è nemmeno in parte divisibile, allora non vale. Purtroppo, non vale.

    Ero pronta agli occhi grandi dei bambini, persino alle loro mani tese. Non avevo pensato alla loro pelle, troppo tracciata dai segni, alle movenze troppo simili a quelle dei miei figli. Dopo succede che non puoi scegliere di liberarti da quella sovrapposizione – di quei bambini e quelli tuoi, che t’aspettano a casa- che ti resta addosso e intorno come una mosca sui datteri.
    E non ti basta saperli oltre mare, al sicuro, non ti basta sapere di poterli nutrire, vestire, viziare, se lo stesso non puoi fare con questi. Che hanno le stesse movenze, gli stessi occhi liquidi, lo stesso modo di prenderti per mano e la pelle più segnata da storie che non vorresti sapere.

    Questi bambini, se gli dai un foglio e una penna, disegnano case. Case vere con tetti e finestre e muri. Di campeggio non ne possono più.

    Non ero pronta alla rassegnazione degli uomini, immobili nei rari stracci d’ombra sotto un sole che avvizzisce i pensieri, a volte quasi indifferenti alla nostra presenza, a volte pronti a scattare in piedi e mettersi in fila per la questua. Perché ci sono uomini a cui, in sostentamento alla famiglia, resta come unico gesto concesso di allungare la mano.
    Da una parte noi, t-shirt uguali, scatoloni pieni. Dall’altra loro, stancamente dritti, vestiti come capita, le mani vuote.
    Le donne che ho visto erano quasi tutte gentili, hanno tentato sorrisi, hanno mostrato pudore. Il coraggio e l’impudenza di chiedere gli veniva da un bambino in braccio o tenuto per mano.

    A bilanciare il senso di disturbo delle reti intorno agli accampamenti e delle tende in strada, c’è stato un accampamento di diversa natura: uomini e donne da ogni parte del mondo che intorno a un tavolone in alluminio si alternano ininterrottamente per preparare i pasti da consegnare ai rifugiati. Abbiamo passato lì molte ore, a scaricare casse di pomodori, cartoni di datteri, camion caricati a frutta. Lo abbiamo fatto con una catena di braccia, con la consapevolezza benedetta di essere parte di qualcosa di buono.

    C’era gente con voglia di ridere e di ballare e una confusione di lingue e una bella musica allegra, e litri di acqua da bere per sopportare il cado, e un pomodoro che scappa dalle mani e rotola via, e qualcuno che ti mette un cappello in testa per resistere al sole, e 24 datteri a sacchetto. Per pranzo, gazpacho o couscous per tutti gli aiuti. Al termine di un compito, un applauso di tutti e per tutti.

    Lì stanno giovani e anziani a dormire in una tenda, passando le giornate a confezionare cibo e distribuirlo. Ognuno a suo modo, ognuno per quello che può: tre giorni, due settimane, sei mesi.
    A qualcuno abbiamo chiesto Quanto rimani? Ha detto Non vado più via. Un’altra ha detto Domani parto, ma torno. E lo ha detto voltandosi in fretta, che non si vedesse il pianto.

    E lì ho pensato che il mondo forse non l’ha perso il diritto a salvarsi; c’è molto bene che non fa notizia, non fa il botto, non fa rumore che non sia una canzone di ska cubano o Manu Chao, sotto il ritmo scandito delle cassette svuotate e riempite.

    In pochi giorni questo è stato l’antidoto all’orrore, a un’Europa, e forse a un mondo, senza risposte; è stato il contrappeso che salva dallo schianto della bilancia.

    Ho visto che aiutare alle volte è un dolore grande, un dolore che ha gli occhi di tutte le persone che non puoi salvare. Delle volte invece somiglia in tutto e per tutto a una festa senza pari, per cui l’invito non serve.

    E giorni così, con questi ingredienti mescolati che ti schiantano la testa e lo stomaco di emozioni, diventano una giostra da cui, tenuto conto di tutto, non hai più voglia di scendere.

    (Grazie a Time4Life per avermi permesso di fare questo e grazie soprattutto al gruppo di 20 pazzi partiti con me da Bologna; per pochissimo tempo siamo stati qualcosa che somiglia a una famiglia.
    Grazie a mia sorella che anche questa volta si è fidata ed è ha diviso con me questa avventura. Grazie ai bambini per i fiori, i disegni, i sorrisi).

    casa

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