Conosco gente tutta rannicchiata nel titolo che precede il nome, o nell’etichetta appiccicata a inchiostro sulla carta d’identità accanto alla dicitura professione. Gente che si stringe dentro una scatola e da lì pontifica o si difende; gente che di quel nome fa uno scranno per mettersi bene dritto e guardare gli altri da sopra in giù.
Ci sono uomini che si sentono incapaci di pretendere il proprio posto nel mondo perché non credono spetti a un domestico di avere spazio suo, che non sia ritaglio dello sgabuzzino del padrone, o a un operaio di dire il suo pensiero. Ci sono politici e uomini d’affari che si tengono cucito addosso il ruolo insieme alla cravatta, si fanno strangolare piuttosto che allentare il nodo, come stare in un paio di scarpe troppo strette, purché chi ti guarda ti trovi elegante.
Ci sono malattie della pelle che non permettono di esporsi al sole. Ci sono malattie dell’anima che non permettono di uscire dal vestito che ci siamo appiccicati addosso. Che sarà pure un bel vestito, buono di tessuto e rifiniture. Ma se non puoi cambiarlo né mostrarti nudo non è un abito, ma l’armatura di quando si va in guerra.
Ci sono titoli che ci precedono solo per togliere ossigeno e scambiamo quella gabbia per un’identità che non racconta nemmeno la metà di quello che siamo. Per esclusione ci fanno combaciare con un ruolo, ci rendono parte di un gruppo, ci regalano la sicurezza fasulla di corrispondere a qualcosa.
Ci sono persone che chiedono che un titolo le specifichi e le definisca. Le comprenda e le presenti.
Io no. Mi piace il mio nome senza nulla che lo annunci.
E i soli titoli che amo sono quelli che anticipano una storia.
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E i soli titoli che amo sono quelli che anticipano una storia.