Ho visto i muscoli della montagna. Sono striature scure dove crescono alberi che ad alta quota diventano cespugli bassi, erbe e muschi.
Ho scalato il fianco duro e verticale, oltre i suoi duemiladuecentocinquanta metri di protensione al cielo. Le ho sentito il battito del cuore, uno solo lento e lungo come il rintocco di una campana, lontana, di notte.
Ho appoggiato l’orecchio sulla sua schiena, ad auscultarne le intenzioni, mentre cercavo l’appoggio al piede e l’appiglio alla mano.
C’era un silenzio rotto dagli strappi amplificati dall’eco di qualche pietra che rotola per una camoscio in fuga, del sibilo della marmotta e del suono del corvo. Di scarponi che battono la terra e spostano ghiaia spessa.
La montagna l’ho pagata, per il suo tenermi addosso, in moneta di fatica e fiato che si fa breve, come la pausa dopo il punto che non va a capo.
Mi ha pagata lei con un senso di cuore che s’allarga e sterno che si apre, quando, alla fine di certe salite, si stendono orizzonti in dissolvenza, dopo lo strapiombo.