Giorno di prove generali per la Medea di Euripide, palco tirato a lucido nel teatro di provincia, tutti pronti alla performance, tutti pronti a fare come se. Il regista, nel buio della platea, si sbraccia con impeto nuovo. Dietro le quinte, segni di scongiura. Gli Argonauti si mangiano le unghie, Giasone saltella da un piede all’altro.
La tragedia procede, quasi senza intoppi, verso la scena conclusiva. Finalmente Medea, la prima attrice, entra in scena dritta come un fuso e con passo impetuoso si dirige verso Creonte per rigirargli il pugnale nel costato, come recita il copione. Tutti si rilassano: la coppia di interpreti è collaudata, sia sulla scena, sia nella vita.
Ogni cosa succede come deve, il gemito della vittima più credibile di sempre, il suo sprofondare contro il fondale è cosi realistico da togliere il fiato.
E il fiato finisce nella gola di ognuno, quando tra le assi scheggiate del pavimento frusto scorre un rivolo di sangue. Vivo. Non previsto da nessuna scrittura, non autorizzato da nessuna regia.
Medea indietreggia, la lama scintillante d vermiglio nel pugno, lo sguardo assente di una statua greca. Non vede nessuno, fino a quando incontra il volto atterrito della costumista, accorsa al crocchio di schiene chine sopra il re caduto.
Ci mette niente a capire, la donna con gli spilli appuntati al colletto, che avevano un prezzo le sue notti clandestine nei camerini decrepiti di un teatro umido di periferia. Mentre Creonte tossisce via l’ultimo sorso di vita, lei cade in ginocchio e s’accartoccia come una cimice finita per sbaglio sulla lampada accesa.
Non sulla scena: fuori dall’occhio di bue. Dove la vita e la morte conservano lo stesso nome ma un peso diverso. Dove certi atti succedono un volta soltanto e non concedono repliche.
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