I primi Mondiali che ricordo li ho visti al mare. Ero in un appartamento di quelli che trovi in Liguria: piccolo, balcone tra i palazzi, spizzico blu laggiù in fondo al cemento, letti a castello. Eravamo mia madre, mia sorella e io. Lei era piccola e quando l’Italia ha perso sul più bello, ai rigori, è scoppiata in un pianto irrazionale e inconsolabile. Avrà avuto una sciarpa tricolore stretta in mano e si sarà sentita tradita. Come quando la vita promette e poi non mantiene. C’era da uscire a festeggiare con tutta le gente in canottiera e bermuda accalcata su terrazzini asfittici e invece niente: lacrime rabbiose sul piano alto di un letto a castello.
Quelli che ricordo dopo: avevo pochi anni e molta voglia di uscire di casa e partecipare alla vita, ancora misteriosa, dei grandi (ovvero quella fascia di popolazione imperscrutabile tra i 15 e i 20 anni). Con un’amica si stava in cortile a dar guerra all’afa a suon di ghiaccioli, ma al primo scoppio di urla o fischi si sgattaiolava veloci, fino al bar poco distante, a sbirciare le reazioni alla finestra, a intuire un rigore non dato o un fuori gioco appeso al fischio dell’arbitro.
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