Mia madre mi raccontava sempre di una cosa che facevano in
paese quando era bambina.
Una certa sera, alla fine dell’inverno, bambini e ragazzi si armavano di
pentole e mestoli e campanacci e si riversavano per le strade battendo i coperchi
e urlando e cantando e chiamando a gran voce per svegliare la primavera.
Io me li vedevo. Una piccola processione nella notte, tutt’altro che
silenziosa, un gruppo sparuto di bestiole allegre, il buio sopra sotto e
intorno, la terra ancora dura ma già disposta a schiudersi, gli scherzi dei
ragazzi, i brividi di eccitazione e freddo dentro i giacconi e magai la luna,
magari un cielo ingombro di stelle altissime sopra le cime delle montagne e
giusto più in là, acquattata nella penombra, la bella stagione a promettere
giorni luminosi e caldi come melograni sotto il sole.
Non è molto che ho scoperto che questo rito si ripeteva ogni 28 febbraio, ovvero
il giorno che te ne sei andata, mamma, 14 anni fa. Da allora è più facile
immaginarti. Immaginarti partire una notte che ricordo nerissima e fredda sulle
scale bianche dell’ospedale, mentre cadeva una neve leggera e fuori stagione, ma
al mattino, potrei giurarci, al mattino arrivare alle nostre montagne fiorite
di crochi e minuscole foglie nuove.
Buona primavera a te, mamma, e qualche volta, se puoi, batti un colpo di
pentola e scuoti un campanaccio, che io ti senta da qui.
Per svegliare la primavera
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