Lo sanno tutti: albe e tramonti sono porte, passaggi che conducono ad altri luoghi. (O forse lo sanno soltanto i bambini).
Anche settembre è una porta. Resta socchiusa per un po’, sbirci attraverso i gialli e i rossi d’autunno, poi una folata di vento la spalanca e ci sei dentro.
I tramonti di settembre, e poi di ottobre, sono cerniere. Il buio arriva veloce, ha meno premure delle notti d’estate; il buio sale dalla terra, e la luce sta tutta compressa nel coperchio di latte che fa da cappello al mondo.
Qualche settimana fa abbiamo riempito un vecchio cestino da pik nik -uno di quelli che in certi film stanno sopra le tovaglie a quadri rossi stese sul prato- e siamo partiti.
C’è questa radura nel bosco che è un’atra porta. Sopra è appeso un cielo a cupola, lontano stanno i paesi, avvinghiati ai fianchi flosci della collina, intorno pareti di foglie e intrecci di rami. I bambini parlano agli spiriti del bosco. Senza accorgercene lo facciamo anche noi; la differenza è che loro stanno poi ad ascoltare le risposte.
Federico ha insegnato a Eliandro e Lemuele a cercare la legna e accendere il fuoco, abbiamo abbrustolito pannocchie che nessuno ha mangiato. Poldo scodinzolava fissando i panini, ho fatto qualche foto, abbiamo bevuto una birra; il calore del fuoco faceva somigliare l’aria intorno a un fiume che sale. Cose normali così.
Intanto, intorno, succedeva che: l’estate scivolava in una versione di sé meno semplice e più raffinata. La sera si scioglieva, colava giù come una lingua molle, come tanti veli di tulle. Dopo, la notte s’è fatta notte per davvero, e il fuoco da trasparente è diventato rosso.
Succede ogni volta così. Ogni giorno fa un passetto avanti, verso la prossima stagione, e la luce s’affievolisce e si inabissa. Per un po’. Mentre consumiamo i nostri piccoli riti quotidiani tutto si trasforma. E lo sappiamo.
Ma non guardiamo (quasi) mai.
(Ma poi, se tutto torna sempre: non dovremmo tornare anche noi?)
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