Ho visto i muscoli della montagna. Sono striature scure dove crescono alberi che ad alta quota diventano cespugli bassi, erbe e muschi.
Ho scalato il fianco duro e verticale, oltre i suoi duemiladuecentocinquanta metri di protensione al cielo. Le ho sentito il battito del cuore, uno solo lento e lungo come il rintocco di una campana, lontana, di notte.
Ho appoggiato l’orecchio sulla sua schiena, ad auscultarne le intenzioni, mentre cercavo l’appoggio al piede e l’appiglio alla mano.
C’era un silenzio rotto dagli strappi amplificati dall’eco di qualche pietra che rotola per una camoscio in fuga, del sibilo della marmotta e del suono del corvo. Di scarponi che battono la terra e spostano ghiaia spessa.
La montagna l’ho pagata, per il suo tenermi addosso, in moneta di fatica e fiato che si fa breve, come la pausa dopo il punto che non va a capo.
Mi ha pagata lei con un senso di cuore che s’allarga e sterno che si apre, quando, alla fine di certe salite, si stendono orizzonti in dissolvenza, dopo lo strapiombo.
Mi ha insegnato: l’umiltà di chi ha mille teorie e non un rimedio contro la forza di gravità, il coraggio del pioniere, l’entusiasmo di guadagnare la cima a strattoni e morsi di roccia.
Della montagna ho visto i pensieri: hanno forma e odore di nuvole veloci che giocano a fare mucchi e torri, e poi ti mostrano tocchi di cielo.
Che così esibito, blu e svergognato non l’avevi mai visto.
E capisci che non è, come dicono, più vicino: ci sei dentro.
Il jolly è: quella sensazione di essere cielo, portarsela a valle
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