Giochiamoci il Jolly: Blog di Fioly Bocca

  • Istanti rubati ad aprile2017 (Di piccole cose e stupori e cose che ho scritto)

    On: 11 Maggio 2017
    In: il progetto, istanti rubati, la mia vita e io
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    Monferrato, PiemonteLasciarsi sorprendere non è cosa da tutti, bisogna imparare.
    Aprile è specialista nel lasciarti indovinare il tempo, puntare gli occhi al cielo il mattino – oggi sarà sole o sarà pioggia?
    Mi sono lasciata sorprendere anche io, qualche volta, in questo aprile. Da un compleanno -il mio- che mi coglie ogni santo anno completamente impreparata, e sì che oramai un po’ di allenamento l’ho fatto. Ammesso poi che ci possa preparare ad avere un anno in più, a ricevere auguri senza commuoversi troppo, a fare (o meglio a non fare) bilanci.
    Mi sono lasciata sorprendere da una festa di compleanno molto speciale -non mia- festeggiata un martedì notte in un bosco allestito per l’occasione, con un furgoncino per distribuire birra fredda, zuppa di ceci e torta di nocciole e luci, e un bel falò, e palloncini colorati appesi ai rami degli alberi.
    Mi sono lasciata sorprendere da una covata di pulcini che abbiamo adottato per un po’, dalla trilogia di Kent Haruf attraverso le strade di Holt, da una pasquetta inaspettatamente soleggiata con gli amici, dalle trovate dei bambini, da una ricorrenza festeggiata in famiglia con un pranzo e poi una gita al lago – breve, ma bella, come le cose improvvisate in un giorno di primavera.

    E così a metà di quel pomeriggio di primavera montarono a cavallo e, come viaggiatori nel vasto mondo, Bobby in sella e Ike dietro, si allontanarono. (Kent Haruf, Canto della Pianura)

    kent haruf

    Mi sono lasciata sorprendere persino dalle tante ore che sono riuscita a passare davanti a una tastiera a battere e ribattere i soliti tasti. A limare, spostare, tagliare, aggiungere, modificare, definire, sostituire, mettermi le mani tra i capelli, alzarmi e guardar fuori -piove o non piove? Esce il sole?- accarezzare il gatto e aggiungere ceppi nella stufa in cucina, che il sole vabbè, ma in casa fa freddo. E poi ancora, da capo, gli stessi tasti, levare, sintetizzare, ricalibrare. La virgola lì non ci sta, proviamo col punto.
    Mi ha sorpreso sentirmi sbalzata indietro, agli anni dell’università, le notti prima degli esami, i sabati e le domeniche a vagare per casa in pigiama e a riempire la moka di caffè. Rispetto ad allora mancavano le sigarette a segnare le pause, gli amici spettinati e stravaccati sulla poltrona in camera mia con grossi libri aperti sulle ginocchia e matite per sottolineare.
    Mi ha sorpreso, in qualche modo, ogni frase che ho scritto e poi riscritto perché prima di farlo non sapevo precisamente nemmeno io cosa volessi raccontare. Oppure sì, ma soltanto confusamente. Soltanto approssimativamente. Adesso invece è quasi tutto lì, quello che volevo dire, che potevo dire. E ogni volta mi sorprende.

    Intanto siamo a maggio, si veleggia verso l’estate, nonostante le piogge insistenti in questa parte di mondo. Non scoraggiamoci, non certo per il meteo. Alleniamoci, invece, diventiamo campioni di stupimento.
    (Che dite, il sole: esce o non esce?)

    Il vento soffiava sui campi piatti, aperti e sabbiosi, sui campi di grano e sulle stoppie di granturco, sulle praterie dove scure mandrie di bovini pascolavano nella notte. Ai due lati della strada le fattorie si stagliavano alla debole luce azzurra dei lampioni nei cortili, case sparse e isolate nella campagna buia, e in lontananza, alla fine della strada, le luci di Holt non erano che un bagliore sul basso orizzonte. (Kent Haruf, Crepuscolo)

    Monferrato, PiemonteMonferrato, PiemonteMonferrato, Piemontepulcinosorellemyfamilymy familyla mia scrivaniaMonferrato, Piemonte
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  • Istanti rubati a marzo2017 (Impronte sulla neve e le distanze dell’amore)

    On: 6 Aprile 2017
    In: istanti rubati, la mia vita e io, viaggi
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    millegrobbe, trentino

    A marzo siamo stati in Trentino. Eravamo in una baita in mezzo alla neve e c’è stato sole, e nuvole solo ogni tanto. Tanto sole da accendere distese bianche intorno, come un mare di minuscoli specchi riflettenti.
    Abbiamo sciato, e un pomeriggio abbiamo deciso di fare una camminata con le racchette. Lì intorno ci sono pinete bellissime, e poi quella luce. Una passeggiata nel bosco era quel che ci voleva. Peccato che le racchette per i bambini al noleggio non ci fossero – forse non esistono, non so.
    Pazienza, abbiamo detto, ci si va tutti senza. Siamo partiti e proprio di fianco alla baita c’è una scuola per guidare le slitte coi cani. C’erano degli husky bellissimi, ci siamo fermati a guardali, a interrogare i padroni. E poi ci siamo avventurati. Prima la strada era piuttosto battuta e la neve soda, poi via via più soffice e si sprofondava sempre più facilmente.
    Ma c’era quel gran sole, l’ho detto, quella luce che s’infilava dappertutto – sotto la giacca, tra i rami bassi dei pini, nei pensieri. Siamo andanti avanti.

    Mi è tornato alla mente una foto che abbiamo fatto Federico e io qualche anno fa. L’abbiamo fatta col telefonino, una notte di febbraio che sulle nostre colline scendeva una neve leggera, inattesa. Avevamo deciso di uscire, lui e io. La foto è in bianco e nero, come i ricordi di quella notte: bianco della neve, nero del cielo. Abbiamo cenato in un ristorante dalle nostre parti, abbiamo bevuto vino. E poi siamo usciti a camminare perché ci sono poche cose che amo come la neve che cade di notte, come l’idea del mondo che si ferma mentre dormo (e vorrei stare sveglia) e che il mattino dopo è un’altra cosa. Non proprio: la stessa cosa, ma diversa.
    Non ricordo cosa ci siamo detti, ma ricordo le impronte che lasciavamo indietro. Se riguardassi il percorso vedrei orme vicine -quando ci siamo tenuti per mano- e segni di impronte più distanti, ma parallele – devo essermi fermata con gli occhi chiusi a sentire i fiocchi sciogliersi sulla faccia, o lui si è allontanato a frugare il buio, ad accendersi una sigaretta.
    Ho pensato che così è l’amore: camminare tenendosi a portata di braccio. Lasciare orme appaiate.

    Camminando coi bambini, quel pomeriggio di marzo, non siamo arrivati al bosco. Eravamo tutti e quattro esausti un bel pezzo prima, così siamo tornati indietro. Per fare l’ultimo tratto ci siamo divisi: i bambini hanno fatto la strada più breve e noi quella dove la neve era più compatta, per evitare di sprofondare fino all’inguine, spezzando a maleparole l’incanto di quel silenzio.
    Hanno fatto tutto il tratto tenendosi per mano, mentre noi li tenevamo d’occhio.

    Ho corretto la mia idea di amore, perlomeno quello di madre e padre: guardarli camminare a distanza, tenendosi a portata di sguardo.
    Senza lasciare impronte evidenti.

    neve in Monferrato

    In una notte di neve, noi due a lasciare impronte. Il caldo le saccheggerà alla terra, ma non potrà con la memoria.

    millegrobbe, trentino
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  • Sei bella e incinta

    On: 22 Marzo 2017
    In: la mia vita e io, lettera
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    portone“Mamma, sei bella e sei anche incinta.”
    “Amore grazie ma no, non sono incinta.”
    “Ah. E cosa vuol dire incinta?”
    “Vuol dire aspettare un bambino.”
    “Allora tu sei, incinta!”
    “…”
    “Perché tu aspetti me. Mi aspetti sempre.”

    Ho sorriso, gli ho dato un buffetto. Ho finito di struccarmi il viso con il latte detergente. Ho pensato che ha molta fantasia ed è generoso – dirmi che son bella mentre mi tolgo il trucco alla fine di un giorno di lavoro.
    Poi ho pensato che ha ragione lui: quello che fa di una donna una madre è l’attesa. Una madre aspetta che la pancia fiorisca, che il frutto si completi e staccandosi dall’albero cada nel mondo. Aspetta il primo strillo, il primo dente, la prima parola.
    Aspetta alzata di notte le luci di un’auto nel viale.

    Adesso l’attesa più bella è la sera, aspettare con loro, nel letto, il sonno che viene. Si legge un libro, prima, ci si mette al sicuro: finché i lupi stanno dentro le storie non vengono qui. Poi ci sono i pensieri sparsi, quelli che di poco precedono i sogni, che vengono a galla un momento mentre ci si inabissa in un mondo che la volontà non governa.

    Oggi a scuola ho imparato a scrivere gli – Domani mi fai vedere – Facciamo che tu sei la mamma orsa e noi gli orsacchiotti e andiamo in letargo – No, io voglio essere una piccola volpe – Sì, adesso chiudiamo gli occhi – Ma domani si va all’asilo? – Sshhhh… dormiamo, adesso. Dormiamo.

    Jonathan Safran Foer scrive che non si è mai abbastanza attenti alle ultime volte dei figli. Si aspetta la prossima cosa che impareranno a fare – il giorno che leggeranno quel libro da soli e si addormenteranno senza il mio corpo vicino, con le gambe non più rannicchiate contro le mie, ma lunghe fino alla fine del materasso.
    Così io aspetto stasera perché so che stasera sarà ancora così: la storia del Riccio che cerca una tana, la luce da spegnere e due corpi piccoli vicini – e mille pupazzi, forse un gatto.
    Ci saranno altre cose da aspettare, domani e nei giorni a venire. Adesso mi sta bene questa, non ho nessuna fretta.

    Avete ragione voi, bambini, io sono qui, incinta perché sempre in attesa. Del rumore che faranno le vostre voci, dei piedi che arriveranno al fondo del letto. Di sapere se il Riccio trova o non trova una tana.
    Ogni madre lo fa, anche se sembra stia facendo tutt’altro: anche quando davanti allo specchio la sera, dopo il lavoro, si leva il trucco dagli occhi.
    Senza fretta.

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  • Istanti rubati a febbraio2017 (La nebbia e chi l’ama)

    On: 28 Febbraio 2017
    In: istanti rubati, la mia vita e io, lettera
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    nebbia in MonferratoMi piace la nebbia e a febbraio non si è fatta desiderare.
    Quando il mattino aspettavo sulla banchina il treno, sbucavano vicino due luci -pesci bianchi sputati fuori da una spuma lattescente- e poi tutto il resto, pezzo a pezzo, vagone per vagone. La sera, tornando, durante gli ultimi chilometri in auto i filari di pioppi ritti come sentinelle si lasciavano soltanto immaginare. Riconoscevo la prima fila e sapevo che gli altri seguivano, fedeli e ostinatamente immobili.
    Più di tutto mi piace la nebbia con il sole, a giorno pieno. Quando tutto s’allaga e ogni cosa somiglia appena a se stessa, quando tutto è smussato e inoffensivo.
    Quanto è sottovalutata l’approssimazione, che pure dà sicurezza, per quella sua capacità di non esser prescrittiva.

    La nebbia rinforza l’immaginazione, forse mi piace per questo. Così mostravo ai bambini i profili molli delle colline alla finestra e ci vedevamo giganti pronti venire, grossi draghi sputafuoco divoratori di cipolle. Cosa non sanno trovare, nella nebbia, i bambini.
    Non sempre cose belle, certo. “Mamma, ho paura dei ladri. Quelli che vengono e ti rubano un polmone per venderlo.” L’esercizio allora è ridimensionare le sagome. E se di alcune cose non puoi negare l’esistenza, puoi mostrargli paletti e staccionate perché si sentano (un poco) al sicuro. Per ogni brigante venuto a depredare, c’è senz’altro un drago vegetariano pronto a difendere.

    La nebbia è un nascondiglio buono. Non dice dove dovresti essere, ma lascia indovinare dove potresti. Come scrivere una storia. In principio vedi un profilo in movimento, mentre guidi la macchina o te ne stai con la fronte appoggiata al finestrino di un treno. Segui con la coda dell’occhio, ti domandi se possa essere un tetto o un ponte, se sotto quel ponte scorra dell’acqua e se quell’acqua la navighi una barca, un veliero, una zattera o un gommone. E da dove venga, e dove vada. E se qualcuno l’aspetti, se qualcuno la insegua.
    A volte lo faccio insieme ai bambini: ciascuno di noi inventa un personaggio che fa quel che vuole. La vicenda nasce dall’intreccio delle mosse di ognuno. Vengono fuori cose buffe e poco credibili. Un albero stanco che starnutisce per mandare via gli uccelli. Un’aquila con i superpoteri. Ogni tanto si litiga perché uno dei tre vuole mangiarsi gli altri. Ma arriva sempre un enorme drago mangia-cipolle a sistemare le cose. Viene fuori dalla nebbia, anche in agosto, anche dove la nebbia non c’è: perché è lì che le cose prendono forma.

    Quello con cui non lottiamo lo lasciamo andare. L’amore non è assenza di sforzo. L’amore è sforzo. (Jonathan Safran Foer)

    Inventare è forzare la vista, fino a mettere a fuoco cose che si nascondono.
    Ricordare è forzare la vista, fino a mettere a fuoco cose che sbiadiscono.
    Amare è forzare la vista, fino a mettere a fuoco persone che ci circondano.
    Anche oggi tu sei qui, anche oggi che sono passati 12 (do-di-ci) anni. Un paio di sere fa Eliandro ha guardato fuori dalla finestra, era notte. “Ho visto la nonna”, ha detto, senza motivo apparente. Ma lui, loro -i tuoi nipoti- hanno imparato a forzare la vista, a farla arrivare a metà strada tra immaginazione e ricordo, tra memoria e invenzione. Tra l’amore e l’amore.

    Ma loro, noi, amiamo la nebbia che ci fa incontrare, come l’amavi tu.
    (La vista è mica solo quella degli occhi: allungo la mano, e ci sei).

    nebbia in Monferrato
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  • Istanti rubati a gennaio2017 (Prime volte e due metafore sulla vita, senza volere. E una Weiss)

    On: 9 Febbraio 2017
    In: istanti rubati, la mia vita e io, lettera
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    torgnon, valle d'aosta
    Forza è gennaio, si ricomincia.
    Perché gennaio, sotto certi profili, somiglia al mattino. Comincia timido, con quel guscio di notte che si porta appresso e poi lascia andare, un po’ per volta, e la luce s’allunga, si stira, anticipa appena ogni volta, senza farsi notare. Gennaio è così, un mese da stufa accesa e gatti accoccolati nelle scatole di cartone – o solo i miei gatti si accoccolano in tutte le scatole che trovano in giro? O solo a casa mia si trovano in giro scatole di cartone?

    Comunque, è venuta persino la neve. Una neve che si è ghiacciata presto e ha fatto chiudere le scuole, una tubatura rotta, una strada che su non si andava, o solo a fatica. E allora noi ci siamo rintanati in casa, vicino alla stufa e ai gatti e le loro scatole – tranne la volta che siamo andati a sciare.
    Anzi, che abbiamo portato i bambini a sciare. La prima volta. Siamo saliti con l’ovovia e gli abbiamo messo ai piedi gli sci piccoli appena affittati. (Ho scoperto che si suda di più a far sciare i bambini, che a sciare). Si sono arrabbiati un po’, non riuscivano a stare dritti, prima, poi non riuscivano ad andare dove volevano loro. Eppure è così, quello è il bello: in salita non si va, se non fai scaletta. Quello insegnano la montagna e la neve, ad andare piano. E per veloce che è la discesa, lenta è la salita. Decidi tu, se vale la pena.

    Poi è venuto il maestro e se li è portati via. Piano piano, aiutandoli con le sue bacchette, mettendogli sulle punte degli sci quell’aggeggio per non farli incrociare (Ai miei tempi non c’era, ho detto. E mi son sentita vecchia; non perché ai miei tempi non c’era, ma perché ho detto una frase da vecchi).

    Comunque noi li potevamo vedere, perché le piste stavano sotto. Così ci siamo messi, Federico e io, lì fermi in piedi, a guardare. Abbiamo preso una birra (volevo dell’acqua, ma in quella baita c’era la Weiss e non so resistere, alla Weiss) e siamo rimasti impalati, come al cinema, ma con più partecipazione. Eccoli, sono lì: tapis roulant, piccola discesa. Tapis roulant.
    Facevamo il tifo, sottovoce. Che non demordessero, quando perdevano l’equilibrio. Che le culate fossero oneste, che pigliarle tocca pigliarle per forza.
    Guardavamo, pensando che come metafora della vita (loro a fare e noi a incitare, in disparte) fosse anche troppo scontata, così ce la siamo tenuta ognuno per sé, bevendo Weiss e prendendo quel po’ di sole, in attesa che tornassero.

    Non era molto, ma a me che non cercavo altro che immagini da tenere negli occhi, forse bastava. (Italo Calvino)

    C’è stata un’altra prima volta.
    Lemuele è andato a scuola senza sapere scrivere una parola che fosse una, a eccezione di: Lemuele. Una sera di gennaio sono tornata a casa e mi ha mostrato una cosa –Chiudi gli occhi, mamma, poi apri!– sul quadernone: una storia scritta da solo. La storia parla dell’orso Odo e delle cose che gli piacciono (il miele, nuotare, la sua famiglia). È breve, scritta col pennarello, sgrammaticata a tratti. È bellissima.
    Mi hanno detto che si è seduto sul tappeto e ha fatto senza aiuti, emergendo ogni tanto per farsi ricordare la forma di certe lettere che non gli venivano in mente.

    È solo la storia scritta da un bambino, la prima di mille. E io sono solo una mamma che come tutte le mamme piglia una cosa minima fatta dal figlio -la prima parola, il primo passo, la prima discesa sugli sci- e se la punta al petto come medaglia al valore.
    Ho pensato a tutti i miei diari, le pagine arabescate di parole, i fogli pesanti di inchiostro, le storie, le rime, le lettere, i compiti, appunti, elenchi, liste di cose da fare, cose da ricordare, cose da dimenticare, liste della spesa, confessioni, racconti, bigliettini, ricordi.

    Ho pensato a tutte le pagine che i miei figli devono ancora riempire, e ho pensato tu guarda, un’altra metafora sulla vita, senza volere.
    Ho sentito un pizzico proprio qui, dove supperggiù dev’esserci il cuore.

    moncestino, piemonte
    moncestino, piemontemonferrato

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  • Istanti rubati a dicembre2016 (tornare a casa e trovare luci accese)

    On: 10 Gennaio 2017
    In: istanti rubati, la mia vita e io
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    dicembre 2016Se dovessi riassumere dicembre in una frase: tornare a casa e trovare luci accese.
    Vederle di lontano, arrivando lungo il viale che certe sere è stata duro di ghiaccio, altre sere, pantano molle dopo la pioggia.
    Arrivarci dopo una giornata lunga, ma dire giornata non è giusto, perché a dicembre non sono tante le ore del giorno. Comunque, arrivarci certamente al buio, come al buio si è partiti, delle volte sotto un tetto di stelle – e che stelle! Bocconi bianchi come neve che aggiungono una dimensione al cielo.

    Sul viale che dicevamo, tirare giù il finestrino, far entrare aria fredda e metterci il naso dentro, in quel cielo multidimensionale e prepotentemente bello da far scordare la stanchezza. Rallentare fino a fermarsi e guardare casa da lì, da una distanza non piccola non grande: la distanza che ti fa mettere a fuoco le cose che hai nel cuore. O in un posto che ci somiglia.

    Un posto che somiglia al cuore è la casa, intesa come un luogo dove ti piace tornare.
    (Puoi averne cento, o una sola. Ma conta poco, perché quell’una può esser grande come una parola detta da qualcuno un mattino o combaciare con il mondo).
    Dicevamo, però, di certe luci da quel viale: basterebbe vedere accesa quella del bagno, o della cucina, che vuol dire Qualcuno che ti aspetta. O, alla peggio, che si aspetta che tu stia tornando. Non è uguale, ma non è poco.

    Ma adesso c’è anche la fila di lucine intermittenti lungo il portico, che se ti metti in una certa prospettiva fanno da corona al cielo e ci vedi dietro la collina scura, la stalla e il castello di Gabiano. (Come nelle fiabe, mi sembra: la stalla e il castello). E ci sono le mie preferite, le luci sull’albero in balcone. Luci semplici e tutte bianche che mi piacciono tanto perché le vedo dal letto, di notte, e tutta la stanza diventa speciale.

    Ripenso ad altre luci, altri Natali. L’altra casa che ho, che sono io bambina. Sono a casa e aspetto le luci di un’auto nel viale: mio padre, mia madre, mia sorella. Magari c’era la neve e la macchina andava avanti piano, accendendo i vetri del ghiaccio con i fanali, un momento.

    -Chi lo avrebbe detto che sarei cresciuta davvero.

    Invece sì, o non ci sarebbe questo dicembre, rallentare nel viale tornando da lavoro, salire in cucina e spegnere tutto per stare insieme a guardare: luci bianche che pulsano al buio come piccoli cuori accesi.

    dicembre 2016dicembre 2016dicembre 2016

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  • Eliandro, il compleanno, il pensiero magico e Gulo

    On: 27 Dicembre 2016
    In: la mia vita e io, lettera
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    EliandroPer il suo compleanno, Eliandro non ha chiesto nulla. O, per dire meglio, ha chiesto mille regali, che equivale a non chiedere nulla. La verità è che a lui piacciono le sorprese e qualsiasi cosa -o quasi, ma è un quasi molto sottile- lo fa contento.
    Ha avuto una bicicletta. Naturalmente senza rotelle perché ci sa andare da un pezzo. Il segreto per imparare è uno: Bisogna provare tante volte, velo? E non bisogna aver paura di cadere perché se si cade si impara.

    È la sua filosofia di vita, già abbastanza rodata all’alba dei 5 anni.
    Lui è quello che si programma i sogni prima di dormire: Nel mio celvello ci sono tanti videi: quando mi addolmento scelgo quello che voglio vedere: questo no, questo no… questo! e così faccio il sogno che voglio.
    Io pagherei ogni notte il biglietto, per godermi lo spettacolo dell’intera compilation di videi nel celvello di mio figlio.

    Eliandro ha amici veri, quelli dell’asilo, e amici immaginari. Il più fidato è un drago volante che si chiama Gulo. Un giorno è venuto da me un po’ piccato e mi ha detto: Mamma, papà e Meme hanno riso perché dicono che Gulo sembra culo, ma io che colpa ne ho se si chiama così!

    Giusto. (Certo, ora che sta imparando a scrivere e vuole annotare il nome del drago sotto i disegni che fa all’asilo, qualcuno potrebbe fraintendere… Come quando siamo andati al cinema a vedere Eliot, che lui ha immediatamente ribattezzato, e nelle pause di silenzio sentivi urlare: Vai Gulo!)
    Gulo viene con noi dappertutto, soprattutto in piscina. Perché Eliandro aveva molta paura dell’acqua, al punto da non volersi mai lavare la testa. Ma quando gli ho proposto il corso di nuoto come suo fratello ci ha pensato su. Eravamo in macchina, è stato zitto un bel pezzo.
    A che stai pensando, gli ho chiesto a un certo punto.
    Lui, guardando fuori dal finestrino: Che ci voglio provare, mamma.

    Le prime volte non è stato facile comunque, ma poi ha avuto l’idea che ha cambiato le sorti del nostro corso di nuoto: Sai cosa faccio? In piscina mi porto Gulo e i suoi cuccioli, così loro mi tengono le mani e i piedi e non mi fanno affogare. Bè, difficile da credere, ma da allora non ha avuto più paura e andare in piscina è una festa.

    Lo guardo andare con la bici nuova, impantanarsi, perdere l’equilibrio e rialzarsi. Arriva a stento ai pedali, ha il naso rosso per il freddo, i guanti infangati a furia di cadute. Se la ride sotto il caschetto.
    Se potessi esprimere un desiderio per il suo compleanno, vorrei che restasse così: senza paura degli inciampi, capace di programmare i sogni, e mai, mai arreso. Perché per pedalare bene bisogna cadere tante volte, prima.
    Vorrei imparare da lui, dal suo pensiero magico.
    Soprattutto, vorrei che Gulo ci tenesse compagnia per tanto tempo ancora. E dopo averci aiutati a nuotare, potrebbe continuare a farci volare.

    Il jolly è: auguri, amore mio.

    in bici
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  • Istanti rubati a novembre2016 (solo per un eccesso di immaginazione)

    On: 14 Dicembre 2016
    In: istanti rubati, la mia vita e io
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     novembre

    Eravamo disordinate e campestri, ma non per spregio all’armonia, solo per un eccesso di immaginazione.
    (Simona Lo Iacono, Le streghe di Lenzavacche)

    Mi sembra che questa frase parli di noi.

    Siamo così campestri che abbiamo trovato la scusa di un compleanno per comprare due agnelli. Gli diamo il latte con grossi biberon e quando li facciamo uscire dalla stalla ci corrono dietro saltando sulle zampe davanti e alzando il sedere come se ballassero. Come nella sigla di Heidi, quando Peter se ne va ai monti con il gregge.

    Siamo disordinati e campestri e molto, molto silvestri. Per questo ce ne andiamo in giro per boschi quando c’è nebbia e tra gli alberi si possono immaginare fantasmi, distese bianche che custodiscono orme di creature lattescenti e sottane chiare stese tra i rami. Se sforzi la vista ci trovi di tutto, tra i rampicanti che fanno da liane e un tronco cavo per nascondersi dentro.

    Siamo certo disordinati e abituati a perdere tutto. I calzini, la calma, il berretto di lana. Ritroviamo ogni cosa quando smettiamo di cercare e facciamo un gioco insieme, la lotta sul letto, le capriole sul tappeto. Il calzino era sotto il divano, la calma stava pizzicata dentro un abbraccio. Di berretti ne abbiamo un bel po’, inutile accanirsi.

    Non ci manca l’immaginazione e da grandi vogliamo fare l’astronauta, il falconiere, studiare i dinosauri e costruire case per i bambini poveri. Ci dicono “Quando crescerete cambierete idea.” Invece il lavoro bisognerebbe davvero deciderlo da piccoli, quando scegli per quello che ami fare e non per quello che vuoi ottenere, in un compromesse sempre al ribasso.
    O se proprio scegli da adulto, prova almeno a ricordare che volevi andare sulla luna.

    Io a novembre ci ho pensato spesso, a quello che volevo fare e perché.
    Volevo raccontare storie. Per vivere tante vite, perché mi facevano paura le cose che finiscono. Se ne hai tante, pensavo, ci vuole un bel po’ prima che finiscano tutte. O, con un po’ di fortuna, potrebbe non succedere mai.
    È ancora così e allora ho raccontato tanto, scritto tanto. Spesso da un vagone sul treno, o al tavolo della cucina mentre la stufa brilla e fuori la notte s’allunga, si stira, galleggia.
    Ho capito (o forse solo ricordato) che, perché quello che racconto funzioni, devo mettere il dito dove fa male. Certe cicatrici bisogna toccarsele, ogni tanto, sentire che ci sono ancora.
    Come la voglia di andare sulla luna.

    Ho capito (o forse solo ricordato) che non so niente di me.
    Per scoprirlo, rileggo ciò che scrivo.

    Eccoci. Giocatori di nascondino nella foschia di novembre, accalappiatori di ombre nei boschi, collezionatori di calzini spaiati, allenatori di pecore ballerine, caparbi inventori di desideri nuovi.

    Casinisti, ondivaghi, visionari.
    Irrimediabilmente confusionari. Non per spregio all’armonia. Ma per eccesso di immaginazione.

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  • Istanti rubati a ottobre2016 (ma fedeli alla geografia dell’anima)

    On: 24 Novembre 2016
    In: istanti rubati, la mia vita e io, lettera
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    ottobre 2016Ci sono posti, e giorni, che oggi sfavillano sotto un sole d’autunno misericordiosamente caldo, mentre noi li percorriamo tenendoci saldamente per mano, nella presunta normalità di un qualunque sabato mattina di ottobre.

    Sono questi stessi posti e giorni che domani, nella memoria, saranno strappo, vento, e incendio. Non più aderenti alla verità nuda del terreno e delle cose, ma fedeli alla geografia dell’anima.

    Ci terremo forse ancora la mano, guardando a quelle bolle di tempo fragili nel ricordo e scintillanti, ma senza più stringere la presa: sapremo allora, con l’evidenza dei fatti, che avevamo una vita intera per smettere di tenerci, e non l’abbiamo fatto.

    Avremo visto cambiare la luce alla finestra così tante volte da finire per credere di aver vissuto sempre.
    E forse. Forse.

    ottobre 2016ottobre 2016
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  • Lemuele, il compleanno e l’agnellino

    On: 16 Novembre 2016
    In: la mia vita e io, lettera
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    6 anniPer il suo compleanno Lemuele ha chiesto un agnellino.
    Per la verità, un agnellino e un fucile di plastica “anche se so che a te non piace, mamma.” Lo ha visto nella vetrina di una cartoleria, quel fucile, ci ha fatto fermare la macchina e siamo scesi a comprarlo. Lo abbiamo fatto impacchettare per aprirlo il giorno giusto. (“Quanto manca, mamma, al giorno giusto?”).

    L’agnellino invece lo abbiamo scelto da un pastore vicino a casa. L’agnellina, in realtà. Doveva essere piccola ma grande abbastanza per cavarsela lontana dalla mamma. Ne abbiamo prese due, una anche per Eliandro. Le hanno chiamate Montagna e Fiocco.
    Quelle non potevamo farle impacchettare e da qualche giorno stanno nella stalla. I bambini al mattino, prima della scuola, scendono con due grossi biberon e gli danno da mangiare. Lo stesso la sera, dopo cena, prima di andare a letto. Scendiamo tutti e quattro con il latte; loro belano quando ci sentono arrivare.

    Lemuele ha detto: “Mamma, sono pronto a tutto per difenderle”. Ha detto proprio così: sono pronto a tutto. Ha detto “Se viene per sbaglio un lupo lo predo a calci nel culo.” Ha fatto il gesto di tirare un calcio nel vuoto.
    Quello che mi fa impazzire dei bambini che crescono è vedergli sulla faccia espressioni nuove. Più complesse, articolate. Espressioni che li fanno somigliare agli adulti ma senza la loro sicumera. Una specie di imitazione perplessa, buffa; ma più autentica dell’originale.

    Lo guardo e penso che sono passati sei anni. Sei anni e una vita prima, passata a immaginare come sarebbe stato. Tutta una vita a indovinare quello che oggi ho davanti. Merita comprensione, molta comprensione, una madre che vede il proprio figlio crescere; questo non potevo saperlo, prima. È la più grande meraviglia che possa succederti, straziante come tutte le meraviglie.

    Lo guardo con quell’enorme biberon, sopra uno strato di paglia, nell’umido della stalla insieme a suo fratello. E spero che resti così, almeno un poco. Per quello che si può.
    Felice di una bestiola da imboccare, capace anche di scegliere un regalo che a mamma non piace. Pronto a difendere un agnello dal lupo.
    Anche questo non potevo sapere, prima di essere madre: ti viene paura dei lupi, se li immagini intorno al tuo gregge.
    Ma ti viene anche un coraggio. Un coraggio che forse ce la fai persino a metterti lì a guardarlo diventar grande.

    Il jolly è: auguri, amore mio.

    6 anni
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