Giochiamoci il Jolly: Blog di Fioly Bocca

  • Di come nevicare somigli a una musica (Istanti rubati a #febbraio2018)

    On: 12 Marzo 2018
    In: istanti rubati, la mia vita e io, lettera
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    neve in monferratoDicevano delle grandi nevicate che allora venivano; di tante altre cose e burle che adesso non accadono più perché la gente ha troppi svaghi e poca fantasia.
    Mario Rigoni Stern

    Uscir di casa quando nevica è una specie di istinto, come poi alzar la faccia per farmi sciogliere fiocchi sulle guance, sulle palpebre. Camminare in quella alta, meglio se si affonda, vedere come si trasformano le cose intorno, come diventano irreali.
    Perdono la forma che avevano gli alberi, case, staccionate, pietre; tutto sembra livellarsi, smussarsi, farsi piccolo e nascondersi nel bianco. Non lo vedi, ma pure c’è.

    Viene la nonna, dico ai bambini quando fuori volteggiano piccole ali bianche.
    Per come mia madre l’amava, quando viene la neve io dico che è il suo modo di salutarci.

    Abbiamo fatto una bella camminata tutti e tre insieme, un giorno che oltre a fioccare c’era un vento che faceva chiudere gli occhi tanto da non veder la strada. Tra le ciglia semichiuse tutto quel chiarore di terra e di cielo diventava indistinto.
    Per un piccolo tratto siamo andati avanti a fatica, io un po’ timorosa che loro si pigliassero troppo freddo per i vestiti poco adatti – abbiam visto bianco e ci siamo buttati fuori, senza pensare a metter qualcosa d’impermeabile. Ma loro avanti, con i berretti fin sulle sopracciglia fioccose e le mani inguantate ben piantate in tasca. Ce le facciamo eccome, mi dicevano, caparbi come certi eroi che trovano nei libri e in televisione.

    È durata poco la bufera, e quando si è calmata un po’ i bambini hanno guardato in su e uno ha detto ridendo, La nonna ha capito che facevamo fatica, e ha abbassato un po’ il volume, facendo un segno con l’indice e il pollice tenuti vicini, per indicare un po’.
    Ho riso anche io, pensando alla forma di quello che non si vede, travestito di bianco, o di niente. Non si vede e non per questo smette di esserci. C’è eccome, e c’è più forte, per farsi sentire, alza o abbassa il volume per spingerci avanti o lasciarci rifiatare.

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  • Instanti rubati a #dicembre2017 (guardare nelle pieghe delle cose)

    On: 18 Gennaio 2018
    In: istanti rubati, la mia vita e io
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    dicembre 2017

    Dicembre alimenta i suoi misteri e si struscia come un gatto contro il vetro della finestra, per farsi aprire.
    Si infila con le sue poche ore di luce sotto le palpebre che tieni abbassate dentro un mattino pigro e ti spinge a considerare anche quel che non vorresti: risultati, obiettivi centrati e no, promesse disattese e no.
    Sotto le luci sfavillanti dell’albero, davanti alla pubblicità di spumante e panettone, di fronte alla notizia dell’ennesimo morto di freddo, tra le file dei supermercati assiepati di offerte, davanti alle finestre male illuminate di chi non ha acceso candele, ti costringe a grattare oltre la superficie, a riconsiderare.

    Inevitabilmente guida il tuo sguardo ai posti vuoti, quando il tavolo è imbandito per le feste.
    Vuoti per i nostri occhi, solo per i nostri occhi.

    Questo dicembre ho provato ad ascoltare dicembre e il suo buio di cova e proverò a farlo ancora: è tra i propositi per il nuovo anno.
    Cogliere la solitudine nel fracasso del convivio, e il suo contrario.
    Guardare nelle pieghe delle pieghe delle cose.
    Setacciare i sogni della notte.
    Raccogliere le briciole nella mano, alla fine della festa.
    Frugare l’invisibile.

    Come scrive Severino Cesari: Prendetevi cura di voi stessi, e di quelli a cui volete bene.
    E magari anche degli altri.
    Non c’è davvero altro, credete.

    Questo mi dico per il nuovo anno: scava, affaticati, spaventati, sporcati, fai nere le unghie, cerca. Scendi in profondità, al piede, alla radice, dove la terra è umida, dove il lavorio degli insetti è infaticabile, nel regno misterioso dei muschi e delle muffe, di quel che non si vede e non si dice, di quel che potrebbe essere, e forse.

    Osserva, racconta. I rami si spiegheranno verso l’alto, muovendo le foglie al vento come bandiere – saranno più verdi, vedrai, più vive.
    Tu fruga, fruga l’invisibile.

    dicembre 2017dicembre 2017dicembre 2017dicembre 2017
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  • Grazie maestra Lina

    On: 15 Gennaio 2018
    In: la mia vita e io, lettera
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    cefalù
    Il primo giorno di scuola abbiamo disegnato noi stessi e, per chi sapeva già farlo, scritto il nostro nome lì sopra, sulla prima pagina del quaderno. La mano tremava un po’.
    In terza elementare la maestra ha detto a mia mamma È brava Fioly nei temi, usa già gli incisi.
    In quarta elementare mi ha detto che le divisioni non erano proprio il mio forte. Era vero. Ricordo una classe vuota e io ancora inchiodata al banco, e la prova del nove che non tornava mai – la prova del nove è una croce, e non solo graficamente parlando.
    Aveva ragione, non erano proprio il mio forte le divisioni. Mi ha anche detto però che potevo imparare, solo stare tranquilla, solo non perdere speranza e pazienza quando la classe si svuota e io ancora al banco. Se vuoi ci riesci, stai sicura, mi ha detto.
    Un giorno di terza elementare mi ha chiamata alla cattedra, mi ha fatta sedere un momento vicino a lei, davanti alla finestra. C’era una luce forte, ricordo. La mamma le aveva appena detto che aspettava un bambino. Non so più cosa mi abbia spiegato esattamente quel giorno, sul fatto di avere un fratellino o una sorellina, sulla ricchezza che questo avrebbe regalato alla mia vita. Ma so che me ne sono tornata al posto confortata -era una notizia bella, certo, ma un po’ metteva i brividi, vista da lì- confortata e persino orgogliosa perché stavo per diventare Sorella Maggiore.
    Una dozzina di anni fa la ho incontrata per strada in paese, la mia maestra delle elementari. Mi ha chiesto di mamma che era in ospedale. Non stava proprio per niente bene, mamma, a quel punto. Mi sono venute in mente, chissà perché, decine di immagini – il primo giorno di scuola, la volta che mia madre mi ha detto brava, sono belli i tuoi temi, lo dice anche la maestra, la volta che è venuta in classe per dire che sarebbe arrivato un fratellino – che poi è stata una sorellina. Ho rivisto tutto e non ho potuto evitare di scoppiare in lacrime.
    La maestra mi ha abbracciata e ha detto Non devi piangere, devi essere forte. Se vuoi ce la fai.
    Era molto più difficile che stare in una classe vuota con la prova del nove che non torna. Infinitamente, più difficile. Ma era l’unica cosa da fare.
    Ho capito che una persona ti ha lasciato molto se ti ha lasciato un insegnamento piccolo che si può replicare in grande.
     
    Ora che se ne è andata anche lei, penso all’unica cosa che si possa fare, in questo riadattamento infinito ai vuoti e ai pieni della nostra esistenza: ripeterci che possiamo farcela.
    Se lo scrivessi sul quaderno adesso, la mano tremerebbe un po’: Ciao maestra Lina, e grazie.
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  • Ai tuoi sei

    On: 27 Dicembre 2017
    In: la mia vita e io, lettera
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    6 anniAlla tua spensieratezza, alla tua caparbietà, all’ironia spiazzante, alla testardaggine irremovibile. Al tuo dormire con la mano sotto la guancia, al tuo modo di muovere le braccia mentre corri, per prendere velocità, come un piccolo treno.
    Al modo che hai di ridere, come ti facessero il solletico, e a quello di piangere, come se tutto fosse irrimediabilmente ingiusto.
    Al coraggio un po’ spavaldo, alla paraculaggine, al tuo provare mille volte ogni cosa, per farla riuscire. Al tuo cuore grande, grande.


    A te che ti amo non da quando sei nato: ti amo dalla prima volta che ti ho pensato. E proprio non avrei saputo immaginarti meglio di così.
    Buon compleanno amore.

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  • Istanti rubati a #ottobre2017 (strategie d’equilibrio)

    On: 27 Novembre 2017
    In: istanti rubati, la mia vita e io
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    Perdere un po’ l’equilibrio, o, diciamo così, la giusta prospettiva. Succede, no?
    Succede e nemmeno è sempre un male. Serve a reinventarsi, a rimettere a fuoco i contorni, ridefinire le traiettorie.
    È un processo, sbilanciarsi e ritrovare una misura nuova, sempre precaria, sempre perfettibile. Ognuno, per farlo, ha le proprie strategie.

    Le mie: leggere.
    Leggere mi permette di prendermi per mano e portarmi in giro. Dentro e fuori me stessa, ma dentro e fuori miracolosamente combaciano. Leggere è evasione ma anche riapprodo a quello che siamo, riconquista, scavo. Scavo che, quando va bene, ci porta in una parte di noi che non sapevamo esistesse – eppure era lì. Silenziosa.

    Poi: scrivere.
    Pescare in fondo, grattare con l’unghia. Fino a creparla, smangiarsela, fino a che la patina di indifferenza cede e lascia vedere: come il ghiaccio che ad alta quota scopra un lago di montagna. Tu hai solo l’unghia e il ghiaccio è spesso. Ma gratti. E gratti. E poi chissà, forse arrivi all’acqua, se il punto è quello buono e la forza che ci metti è quella giusta.
    (Ottobre è stato il momento di mettere lo smalto, che mi sembra dia brio ai pensieri, e limare le unghie, che si rinforzino un po’.)

    Quindi: organizzare un viaggio.
    Va bene una gita, un giro, un’uscita. Da fare domani, tra un anno o dieci.
    Basta una mappa per sapere come perdersi e un po’ di immaginazione per sapere dove cercare.

    L’altro modo di ri-bilanciarmi è: prendere i miei figli per mano – uno da una parte e uno dall’altra – e andare nel bosco. Sui sentieri ritorti tappezzati di rampicanti o sui solchi profondi che gli attrezzi agricoli lasciano a bordo campo.

    Uno per mano, e riecco il mio centro.
    Ci voleva tanto?

    Urliamo -vieni qui, è pericoloso, guarda là! è stato lui!-  a tratti cantiamo, litighiamo, ci pestiamo senza volerlo i piedi, spaventiamo i cavalli quando a sera torniamo a casa, un po’ stanchi, un po’ sudati. Li spaventiamo sbucando all’improvviso mentre quelli – i cavalli- se ne stavano placidi a pascolare nei paddock e sentendoci arrivare corrono via sgroppando e alzando terra con gli zoccoli, come se da qualche parte ci fosse stato uno sparo.

    Insomma, in questo ottobre, in questo autunno, ho fatto le cose che faccio, in un modo o nell’altro, da sempre.  Leggo, scrivo, mi ormeggio alle mani delle persone che amo.
    Mentre pestiamo tappeti croccanti di foglie secche penso che la vita è un elenco disordinato di azioni che ci tengono in piedi, mentre formiamo una catena di mani per stare in equilibrio.

    ottobre 2017
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  • Ai tuoi sette

    On: 16 Novembre 2017
    In: la mia vita e io, lettera
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    io e teAi tuoi sette anni, amore bello.
    Alla tua dolcezza, ai guizzi d’ingegno, alla svagatezza, alle fossette sulle guance, alle finestre tra i denti. Ai tracciati segreti della tua fantasia, alle risate che a volte irrompono tra le lacrime, alle mosse buffe, alle tue gambe veloci. Alle tue lettere sghembe e alle letture della sera.
    Al tuo essere qui essendo altrove, ogni tanto, in cui mi riconosco, al coraggio che ci metti, alle paure che fanno crescere e desiderare di non crescere, ai supereroi, al fiato nella corsa e all’energia nei salti, al nostro bisogno di abbracci.
    Alla tua struggente tenerezza.
    A te, che un pomeriggio estenuante di sette anni fa, mi hai fatta nascere mamma.

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  • Istanti rubati a #settembre2017 (la solitudine del corvo)

    On: 10 Ottobre 2017
    In: istanti rubati, la mia vita e io
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    liguria 2017Quando qualcosa non mi va -mi rende triste, mi mette ansia, mi destabilizza o tutte queste cose insieme- adotto una tattica: mi rimpicciolisco. Mi vedo dall’alto, e da dopo.
    Per vedermi dall’alto uso quella tecnica cinematografica che sposta la telecamera dal particolare all’universale: ci sei tu che riempi l’inquadratura, poi la tua famiglia, il paese, la nazione, mondo, universo. Siamo minuscoli e brulicanti e così imperfetti. Questo mi rasserena? A volte.
    Poi, mi vedo da dopo. Ammesso che campi altri 50 anni (bè, essere ottimisti non conta nulla) e ammesso che mi sia conservata la memoria (anche molto ottimisti, perché no): che importanza avrà quello che mi è successo oggi? Che impatto avrà avuto su quello che è venuto dopo? Di solito la risposta varia da poco, molto poco a nessuna.

    In questo mese di settembre mi sono impratichita parecchio in questo esercizio. L’inizio dell’autunno è venuto in salita, di quelle salite di cui non vedi esattamente la fine o dove ti portino, ma senti che hai un po’ il fiato corto e la gola riarsa.
    Passo a passo, mi sono detta.
    Passo a passo, continuo a dire.

    Ci sono state anche cose belle. Il mare della Liguria a fine stagione, l’inizio della scuola, incontri interessanti e un po’ di solitudine. Da un po’ non la frequentavo. La solitudine intendo. Stare una giornata quasi intera senza nessuno intorno.
    Lavorare affacciata alla finestra, anzi due, spiare le abitudini di un corvo che passeggia sulle tegole del tetto di fronte. Sembrava impegnato a immaginare la rotta, mentre si guardava intorno col becco in aria, zampettando avanti e indietro. Ogni tanto mi sembra che ci facciamo compagnia.
    Mi sono detta: fai come lui. Ricalibra. Non è che non si possa cambiare strada mai. Me lo dico abbracciandomi un po’, come se fossi una bambina che si è persa nel bosco. Me lo dico piano: fai come il corvo, ricalibra.
    Lo sto ancora facendo, impegnata a capire le coordinate.

    _Signor corvo, te che vedi da là?
    Non mi risponde quasi mai.

    Nel frattempo, mi prendo l’ultimo sole e do il benvenuto alla nebbia del mattino, mi guardo intono cercando di tenere l’equilibrio (Ho detto equilibrio?).

    E ogni tanto torno alla mia tattica: respiro a fondo, mi faccio piccola. A volte funziona. Non sempre, certo, ma si può provare. L’importante è non farsi fregare: il punto non è tenere a mente che siamo insignificanti, proprio no. Il punto è tenere a mente che il significato è altrove.

    liguria 2017liguria 2017Il punto non è tenere a mente che siamo insignificanti, proprio no. Il punto è tenere a mente che il significato è altrove.liguria 2017liguria 2017
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  • Istanti rubati ad #agosto2017 (Salire)

    On: 14 Settembre 2017
    In: istanti rubati, la mia vita e io, quasi poesia
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    obra di vallarsaL’erba sono i miei capelli, i nodi negli arbusti bassi e delle radici sono le nocche delle mie dita. E i polsi. La mia saliva nasce dalle tue fonti segrete e scivola sulla tua schiena piena di gobbe e di cicatrici.

    Sono i miei denti i tuoi sassi levigati e mentre incespico tra i sentieri bianchi, rotolano pietre insieme alle intenzioni e a quello che solo ieri sera sembrava importante.

    Mi si tappano le orecchie e il respiro tuona dentro la gola come l’eco che da valle alla cima ripete tutti i miei nomi. Nelle tue gole oscure il sangue si rinvigorisce e mi aggrappo alle tue vene di roccia come al collo di una madre.

    Poi mi stendo e il cielo si prende i miei occhi e -uno a uno- i battiti del cuore.

    cima postaobra di vallarsatrentinocima postaponte tibetanoobra di vallarsaobra di vallarsa
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  • Istanti rubati a #luglio2017 (Di cosa abbiamo bisogno)

    On: 2 Agosto 2017
    In: istanti rubati, la mia vita e io, lettera, viaggi
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    Estoul, Il richiamo della forestaAbbiamo bisogno di selvatico, della strada sterrata che si inerpica fino alla radura, dove non arriva l’asfalto con la sua simmetria di strisce bianche; delle tracce lasciate di notte da una volpe che si è avvicinata al paese; del grido fischiante di un nibbio o di quello notturno della civetta. Abbiamo bisogno del telefono che non prende, dell’auto che fino a là non arriva, dell’odore di resina che sporca i vestiti dei bambini mentre s’arrampicano sugli alberi.

    Le ho sempre sapute queste cose e le ho ripensate sulle strade sopra Estoul, mentre con mia sorella e i bambini si andava al Festival della Montagna, una bellissima festa tra i boschi, dove il dress code prevedeva piedi scalzi o scarpe da trekking e k-way per la pioggia.

    Abbiamo bisogno di parole, quelle dentro e quelle fuori dai libri. Ma devono essere parole piene, concrete. Come spiega Paolo Cognetti, devono essere i nomi delle piante che crescono ad alta quota, i verbi esatti per raccontare un’arrampicata, i luoghi geografici che descrivono un cammino. Devono fare un suono preciso, avere un peso specifico.
    Un mondo giusto è fabbricato con parole esatte.

    Abbiamo bisogno di incontri. Non quelli distratti alla fermata dell’autobus, quelli fatti di fretta alla cassa del supermercato – tutto bene da voi, sentito oggi che caldo, che tempo, e ieri quella grandinata.
    No, incontri: nuovi o vecchi, questo non importa, importa che ci sia la voglia di dividere qualcosa, oltre alle frasi sul clima inclemente, su chi scende o non scende alla prossima fermata. Può essere passarsi una borraccia o consigli di lettura, ballare in un prato mentre un gruppo fa le prove del suono per il concerto della sera, immaginare un progetto nuovo, ambizioso e visionario, prestare le bolle di sapone a un bambino.
    Alzare la faccia insieme per sentire le prime gocce di pioggia in fronte.

    Abbiamo bisogno di passi. Non dall’ascensore alla porta dell’ufficio, o dalla camera al bagno. Bisogna pestare erba, farsi strada tra i rovi e le spighe, sentire sassi sotto le scarpe, arrivare in cima alla salita, il cuore in gola, i muscoli molli. Sentire la potenza di questo corpo che scordiamo d’avere, sentire piena la forza e l’immensa grazia d’avere gambe affidabili.
    Gambe e cuore che ci portino: cos’altro conta?

    Abbiamo bisogno di semplicità. Roba facile come pane con dentro qualcosa che dia gusto, come acqua di fonte o magari un buon vino. Cose così.
    Sentire la mano dei miei figli dentro la mia, una per parte, mentre andiamo.

    Che altro serve. Tempo. Solo questo: tempo senza appuntamenti se non con se stessi, con la voglia di sedersi in un prato, appoggiare la schiena ad un albero. E stare.

    Come scrive Thoreu abbiamo bisogno di inesplorato. Vorremmo arrivare ovunque, vedere tutto, oltrepassare ogni barriera o confine. Scavare nei recessi terrori del sottobosco per scoprire una colonia di formiche, giungere a nuoto all’ultima isola, arrivare alla vetta un gradino sotto il cielo. Vorremmo arrivare ovunque ma ci serve sapere che resta qualcosa di inarrivabile. Ne abbiamo bisogno.
    Qualcosa da pensare soltanto, con il cuore che ci brucia in petto durante la salita o che se ne sta quieto in fondo agli occhi mentre con la schiena appoggiata al tronco guardiamo laggiù.

    Dai boschi di Estoul mi sono innamorata, una volta ancora, dell’inesplorato – che resiste.

    “Sono penetrato in quei prati la mattina di molti primi giorni di primavera, saltando da una duna all’altra, da una radice di salice all’altra, quando i selvaggi fiumi della valle e i boschi erano bagnati da una luce così chiara e luminosa da svegliare i morti, se si fossero assopiti nella tomba come alcuni immaginano. Non serve prova maggiore dell’esistenza dell’immortalità.” Henry Davide Thoreau, Walden

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  • Istanti rubati a #giugno2017 (Stropicciata è la realtà)

    On: 19 Luglio 2017
    In: il progetto, istanti rubati, la mia vita e io, un luogo a cui tornare
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    monferratoC’è una cosa che mi piace moltissimo fare con i miei figli, quando cominciano le vacanze: la colazione in balcone. Ci sediamo ai tavolini fuori come fosse una terrazza al mare, anche se il nostro mare non è blu, ma verde, e se al posto dei pesci ci sono i cavalli – che voi direte son pesci grossini, ma vabbè, se per questo pensate alle balene. Preparo il mio caffè con i biscotti, il loro latte con panini di nutella e cereali.
    Ci sediamo sorbendo l’odore del fieno, chiacchierando del più e del meno, di quel sogno venuto di notte – un elefante a caccia di ladri che firma con la propria iniziale le mutande dei malfattori.
    Questo nella mia fantasia (l’unica cosa vera è il sogno di Lemuele). Nella realtà, prima che io possa sedermi, Eliandro e Lemuele hanno litigato perché uno dei due ha meno latte dell’altro, perché la tazza di uno è troppo calda e l’altra troppo fredda. Uno si è certamente inciampato versando metà del contenuto tra la cucina e il balcone.

    -È colpa sua.

    -È stato il gatto.

    C’è afa e l’odore è anche quello di letame che viene dalla scuderia. Poi le mosche – queste mosche che fanno dimagrire gli equini e mettono a dura prova la pazienza degli uomini.
    E ci sono le camminate in giugno per le strade di campagna, gialle che sembra di camminare sul sole e noi tre giovani esploratori (giovani facendo una media delle rispettive età) con gli zainetti sulle spalle e i pantaloncini corti. Saltelliamo allegramente.
    Nella realtà, saltelliamo sì, ma allegramente più o meno: saltelliamo perché le zanzare ci stanno sbranando e non basta essere pucciati nell’Autan come le Macine del Mulino Bianco nel cappuccino, soprattutto se per la scanzonata passeggiata hai scelto un’ora serale o crepuscolare, climaticamente compatibile con la vita insomma.

    Nelle immagini è tutto perfetto, come nei ricordi. Sarà bello ripensare, ad esempio, l’ultimo giorno di asilo di Eliandro. Sarà dolce. Anche se in quel momento la malinconia ti artiglia il cuore.
    Nei ricordi ci sono le belle serate sotto il portico a parlare di libri e viaggi e grandi imprese – non c’è la mosca che ti tormenta, il retropensiero delle cose che devi fare prima di sera, della sveglia all’alba di domani, o quella fastidiosa puntura d’insetto che non la smette di fare prurito.
    Dalle fotografie puoi togliere gli aloni, correggere i colori, il contrasto, stemperare le ombre. Ma a ben pensarci è quella roba lì che rende vero il momento – la lamentela di un figlio, il prurito in quel punto, la macchia, l’odore di merda dalla stalla. È l’imperfezione, la stortura che fa vivo e reale quello che c’è.
    Quello che ricordi e foto restituiscono lindo è stato vero, puzzolente, confuso, stropicciato, ingarbugliato e deforme.
    È stato vivo.

    (Tra le cose che sono diventate vere, il 21 è uscito in libreria “Un luogo a cui tornare”: lo avete incrociato, per caso?)

    monferratocavalli, pom graninun luogo a cui tornare
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